“Il cibo degli uomini è fatto soltanto di anime. Tutti gli esseri che dobbiamo uccidere e mangiare, tutti quelli che dobbiamo colpire e distruggere per fare i nostri vestiti hanno anime come noi, che non scompaiono insieme al corpo e che devono essere pacificate perché non si vendichino su di noi, dal momento che gli portiamo via i corpi”.

Non so chi fosse l’eschimese Aua che disse queste parole e ho scoperto soltanto grazie a Wikipedia che il Knud Rasmussen che raccolse il pensiero di Aua era un esploratore e antropologo groenlandese vissuto fra XIX e XX secolo.

Sono d’accordo con Aua.

Noi Homines sapientes siamo biologicamente animali quindi siamo eterotrofi, ovvero per vivere dobbiamo nutrirci di materia vivente, il che significa che per vivere dobbiamo uccidere. Uccidere animali o uccidere piante può sembrar cosa diversa ma secondo me in realtà fa poca differenza. Comunque sia, mors tua vita mea, nel senso più letterale del termine.

Più passano gli anni e più fatico a percepire grosse differenze fra la vita mia (e degli esseri umani miei simili) e quella degli animali e delle piante con cui in qualche modo convivo. Anche nel senso spirituale del sostantivo “vita”, quel senso che considera l’esistenza di una cosa che in termini religiosi si chiama “anima”.
So bene che a molta gente questi miei pensieri sembreranno senza senso e forse lo sono, ma io li penso e non me ne vergogno: perché io dovrei sopravvivere dopo la morte e il gatto Codamozza no? Perché si può ipotizzare che mio padre abbia ancora – in forma di anima – qualche relazione col suo amatissimo paese di Voltaggio e invece il cedro dell’Himalaya che era nato ben prima di Tito Dall’Aglio e ha trascorso a Voltaggio tutto il suo secolo di vita senza mai muoversi da lì, ora non deve esistere più?
Cos’hanno fatto di male, o almeno cos’hanno di imperfetto rispetto a me, a tutti voi, ai nostri parenti e amici già morti, gli esseri viventi animali e vegetali per non poter godere di una qualche forma di sopravvivenza “ultraterrena”, qualora questa sopravvivenza post mortem esista davvero? Se davvero esiste un qualche modo di vivere-oltre-la-morte, è così ovvio che soltanto noi umani dobbiamo averne il privilegio?

So bene che le tre religioni monoteiste “del Libro” pongono l’uomo uno o anche due gradini sopra a tutto il resto del creato e danno per scontato che noi abbiamo l’anima e animali e piante non ce l’hanno; so bene che secondo questo assunto le mie elucubrazioni possono sembrare bislacche ed eretiche e magari lo sono davvero.

Comunque a me non dispiacerebbe per niente se dopo che avrò esalato il cosiddetto ultimo respiro mi capiterà di vedermi venire incontro per darmi un paradisiaco benvenuto non solo i parenti e gli amici di ogni età che saranno già andati prima di me ma anche i miei ex-gatti e gli altri animali di casa e gli alberi che hanno vissuto nei giardini di Ormea e di Voltaggio, e farà poca differenza se ci incontreremo nei luminosi cieli dell’Empireo nella comunione dei Santi o in maniera più impersonale ci uniremo tutti in un indefinibile, puro, assoluto Nulla Divino, quello in cui Meister Eckhart trovava il “Bene al di sopra dell’essere”.

(Scritto il 23 maggio 2013)

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