Realdo, comune di Triora, provincia di Imperia. Se non il tetto del mondo, certo il tetto della Liguria. 1100 metri sul mare, una parete di calcare verticale che sale dalla valle, e in cima al muro di roccia stanno attaccate le case del borgo, in pietra e tegole tegole grigie che sostituiscono senza troppa maleducazione le antiche “ciappe”, le lastre che fungevano da copertura dei tetti quando tutto si produceva in loco. Sopra al paese, la cima grigia e arida del monte Saccarello, 2200 metri slm, la vetta più alta della Liguria, condivisa da buoni amici col Piemonte (ne è il punto più meridionale) e la val Roia francese (anzi, la Roya, come dicono loro).

Intorno a Realdo larici, pini, aquile e lupi (difficilissimi da scorgere per i turisti della domenica, ma ci sono, e non da ieri), e Verdeggia, altra frazione antica di pastori d’alta quota. Che qui si alleva da chissà quando la pecora brigasca, che fa una lana spessa, particolare. Lo credo, a vivere a più di 1000 metri, d’inverno…

Realdo e Verdeggia: fino al 1947 il primo era piemontese, essendo appartenuto al Ducato di Savoia per secoli, e questa ligure, eredità della Repubblica di Genova. Con le modifiche del confine francese nel dopoguerra anche Realdo venne assegnato alla Liguria, cui appartiene geograficamente, anche se uno la Liguria se la immagina un po’ diversa, di solito.
Questo è il lembo quasi più meridionale dell’area di lingua e cultura brigasca, a sua volta lembo sudoccidentale della vasta area di lingua e cultura provenzale – o occitana che dir si voglia, che spazia dalla costa atlantica meridionale francese alle valli alpine delle provincie di Torino e Cuneo, passando per Marsiglia, la Languedoc, Nizza e compagnia bella. Erede, insomma, della lingua d’oc (appunto), sorella medievale dell’italiano e del francese e sorella maggiore, che insegnò al mondo la bellezza della poesia d’amore; la lingua dei trovatori, e purtroppo per lei la lingua dei Catari, che col fatto di professare una religione pseudocristiana di ascendenze manichee si meritarono taccia d’eresia e, intorno al 1200, l’ira funesta della Chiesa cattolica. Che con l’aiuto della “giusta” parte di potere politico ne fece massacri e pulizie etniche come usa talvolta tra i civili popoli d’Europa. La Crociata contro gli Albigesi, l’hanno chiamata, un lavoretto di fino che neanche in Kosovo: “Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi” pare che abbia risposto l’abate cistercense Arnaldo Amalrico, guida spirituale delle operazioni di guerra, a chi gli chiedeva come distinguere nella città di Beziers gli “eretici” catari da eliminare, dai cattolici, che andavano risparmiati. E così scomparvero una “pericolosa” eresia religiosa (animata da uno spirito di tolleranza verso le genti di altre fedi e verso gli altri esseri viventi profondamente manicheo – Mani, predicatore iraniano del III secolo d.C., ovviamente finito male ma lì la colpa fu dei sacerdoti zoroastriani dell’impero persiano, i cattolici non c’entrano – ma inconcepibile per gran parte dei normali uomini di fede medievali) e una civiltà’ di alto livello culturale la cui eredità passo’ comunque almeno un po’ nella civiltà dei vincitori, ovvero la monarchia francese cattolica del nord che conquistò il ducato di Tolosa e la Linguadoca, a riprova del fatto che di solito a fianco delle ragioni “etiche” e morali o religiose delle guerre ci sono anche banali motivi di potere politico. Anche la lingua d’oc quasi scomparve, soppiantata dalla lingua della Francia del nord, la lingua d’oil, insomma il francese, e sopravvivendo solo nei dialetti del Midi.

Ora, con Realdo e Verdeggia tutto questo non c’entra. Però qui ci tengono alla loro cultura occitana (altri dicono che è soltanto ligure-alpina, ma non stiamo a sottilizzare ora), qui come nelle altre valli del Cuneese, e pubblicano libri, erigono steli e cippi, fanno feste, diffondono testi di ricette di cucina trilingui (occitano, italiano, francese) che ricompongono per i curiosi buongustai del Duemila la triade dei “volgari” neolatini della regione, magari non più per cantare le grazie di qualche dama di corte ma le più prosaiche beltà delle cappelle di funghi ripiene e della torta di grano saraceno. Che danno certamente più piacere al corpo e allo spirito che le lontane e desiate grazie di una qualche dama che alla fin fine magari non si concedeva nemmeno.

Sopra Realdo c’è la strada in gran parte sterrata che sale alla Bassa di Sanson, al confine francese, e che si collega con la lunghissima sterrata di crinale che da San Bernardo di Mendatica (al cocuzzolo tra valle Arroscia e altissima val Tanaro) corre intorno ai 1600-1900 metri di quota verso il Colle del Garezzo, la Bassa di Sanson medesima, i ruderi dei fortini bellici della Cima Marta, ora francesi, i rifugi Grai e Allavena e la colla Melosa, che separa valle Argentina e val Nervia. Tutta alta provincia di Imperia. Da Sanson sempre saltellando su sassi si può anche scendere in Francia verso la val Roja, La Brigue eccetera.

Perché vale la pena mettere gambe, pedali di MTB o ruote di auto (non è necessario un fuoristrada da pseudofighi, basta una Y10 di 7 anni e 120.000 km come la mia) per percorrere, meglio se a spizzichi, i 35, 40 km di terra e sassi carrozzabili e camminabili che percorrono i crinali di queste valli alpine e magari salire su qualche cima dei dintorni (Saccarello, Toraggio, ecc)? Per vari motivi:
uno è il piacere un po’ selvatico di farsi circondare dal profumo dei larici, dal calore secco del sole di montagna estivo, dall’umidità accecante delle nuvole che salgono dal mare lontano, dai colori dei rododendri e dei fiori di prato primaverili, dal rumore dell’erba secca autunnale da cui si alzano in volo goffe pernici e silenziosi rapaci; anche la neve crea senz’altro un paesaggio affascinante quassù, ma io personalmente non ci sono mai salito in pieno inverno quindi non ne so parlare;
due è il fascino snob e schizzinoso di trovarsi in una parte del mondo così disabitata e pur così vicina alle spiagge e alle strade affollate e caotiche della Riviera là sotto. Piacere snob tanto più perverso quando si sale lassù nelle domeniche estive, quelle delle ore di coda sull’Aurelia e sull’autostrada, o se si sale in un giorno feriale e si pensa a chi in quel momento sta lavorando in un ufficio della costa o della pianura;
tre è la lunghezza della strada, che non basta un giorno per percorrerla tutta con le sue varianti, si può stare due giorni in quota quasi senza ripercorrere due volte le stesse curve, e tutto in un angolo marginale di una delle più piccole province d’Italia;
quattro è l’architettura di ruderi di malghe e case dei pastori e di edifici ex-militari che qua e là si incontrano, alcune simili alle rovine della campagna romana delle incisioni romantiche dell’Ottocento (come le caserme di Cima Marta), altre riadattate a rifugi di pace e silenzio per fughe domenicali dalla città (come le borgate pastorali sopra Realdo);
cinque è il suono e l’odore delle mucche al pascolo che a volte incontri fra un tornante e un boschetto di abeti e di rododendri;
sei è l’arzigogolare del confine italo-francese lungo la parte più alta della strada, per cui ci si può divertire (infantilmente, ma me mi piace!) a “espatriare” cinque o sei volte in mezz’ora, e magari sedersi su un prato a mangiare un panino con una chiappa in Italia e l’altra all’estero;
sette è la gloria di colori e di disegni che formano gli affreschi di Giovanni Canavesio nella chiesetta di Notre Dame des Fontaines in val Roia (era una Nostra Signora del Fontan, fino al 1947), datati 12 ottobre 1492, proprio il giorno in cui assai lontano Colombo scopriva le Indie occidentali. ‘Sti affreschi dipingono con vivaci colori gotici il Giudizio Universale e altre storie religiose, e formano una vera, benché naif in un certo senso, Cappella Sistina della montagna ligure. Basta l’asfalto della SS 20 che sale da Ventimiglia per arrivarci, ma prendere la chiesetta e il suo torrente “alle spalle” scendendo dalle abetaie di Sanson giuro che è molto ma molto più “mistico”.
otto è la storia minima delle grandi tragedie dell’Europa del Novecento che può leggere chi, visitata la chiesa del Fontan, decida di scendere a la Brigue, che quand’era italiana si chiamava Briga Marittima: gli abitanti di questo paese, come quelli della vicina Tenda, hanno fatto le due guerre mondiali da italiani, e il cippo che, come in tutte le piazze dei paesi d’Italia, ricorda i caduti della prima guerra è scritto in italiano, e crea un curioso contrasto con tutte le altre scritte e le insegne del paese, che sono ovviamente in francese. Compresa la lapide che ricorda le vittime della seconda guerra, che hanno cambiato nazionalità post-mortem (inutilissima, la loro mortem, inutile e stupida, ma questa è un’altra faccenda).

Boh, basta? Forse si, non mi viene in mente altro. Poi lo so che l’Italia è piena di monti così, che basta
andar su per sentire di entrare in un vero tempio di Dio, per sentirsi immersi nel Nulla Cosmico, e ciò pur restando a un tiro di schioppo dal casino della civiltà del Duemila, quella degli Internetnauti e dei pedofili; mica c’è solo Realdo e la sua ghenga, di luoghi così, in Italia. Ma io conosco questi, di monti…..

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