Ieri, martedì 14, è stata un’intensa giornata di funerali. Una specie di offerta del supermercato, “prendi due paghi uno”: ore 10 al Carmine, poi alle 11,45 a San Nicola; nel mezzo c’è stato giusto il tempo per un caffè con gli amici al bar, visto che molti erano i partecipanti a entrambi gli eventi.

Il secondo funerale è stato un grandioso e commovente evento pubblico, con tanto di articolo sul Secolo XIX (articolo, non semplice necrologio), perché il protagonista era un celeberrimo e amatissimo professore di scuola media, morto a soli 60 anni poveretto lui, e la chiesa era strapiena di centinaia di suoi studenti ed ex-studenti, più i colleghi insegnanti, gli amici, i parenti…
Fra le tante letture d’addio di fine messa, lette con voci commosse da bambini, ragazzi e adulti, c’è stata quella di Federico (per gli amici Feffe), fratello del professor Carlo scomparso; Federico ha recitato (parlando spesso a destra e a manca e non nel microfono come avrebbe dovuto ma va beh…) una poesia di Edoardo Firpo – porta dialettale genovese del XX secolo – di cui io conoscevo solo il finale e ho avuto così modo di ascoltare intera. E’ una poesia che ben si accompagna con una canzone di Francesco Guccini da me molto amata, “L’albero e io”, scritta tantissimo tempo fa per l’album “Due anni dopo” ma secondo me molto meglio suonata e arrangiata nell’album “Quasi come Dumas” del 1988.

Poesia e canzone che dicono la stessa – a mio parere bellissima – cosa: che sarebbe bello poter restare in qualche modo ancora sulla terra dopo la morte. Perché va bene la vita eterna, va bene il Paradiso, la comunione dei santi, vedere Dio faccia a faccia quale Egli è… ma la vita su questa terra….!!!!!!!

Ciammime un po unna mattin – Edoardo Firpo

Quande in te belle mattinn-e
limpide de primmaveja
che lungo e spiagge marinn-e
pà unna farfalla ogni veja;
e-o sò o l’inonda de luxe
l’anima o mà e-e campagne,
e paan sospeise in tu çe,
insemme ae nivue, e montagne,
l’antigo dubbio o me torna;
saià proprio veo che un giorno
s’asmortià tutto pe mi?

Figgièu, che pe-e coste di monti
ti bèivi a-e fresche vivagne,
appenn-a fiorisce e campagne
ciammime un po unna mattin.
Chissà che da qualche rianello,
da qualche ramma de pin
no te risponde un pittin.

(mi pare semplice da capire comunque ecco la traduzione per i non genovesofoni, e chiedo scusa ai zeneisi se per semplicità non ho usato gli accenti circonflessi corretti):

Quando nelle belle mattine
limpide di primavera
che lungo le spiagge marine
ogni vela sembra una farfalla;
e il sole inonda di luce
l’anima, il mare e le campagne,
e paiono sospese nel cielo
le montagne, insieme alle nuvole,
l’antico dubbio mi torna;
sarà proprio vero che un giorno
si spegnerà tutto per me?

Bambino che lungo le coste dei monti
bevi alle fresche sorgenti,
appena fioriscono le campagne
chiamami un po’ una mattina.
Chissà che da qualche ruscello,
da qualche ramo di pino,
non ti risponda un pochino.

 

L’albero e io – Francesco Guccini

Quando il mio ultimo giorno verrà
dopo il mio ultimo sguardo sul mondo,
non voglio pietra su questo mio corpo,
perchè pesante mi sembrerà.
Cercate un albero giovane e forte,
quello sarà il posto mio;
voglio tornare anche dopo la morte
sotto quel cielo che chiaman di Dio.

Ed in inverno nel lungo riposo,
ancora vivo, alla pianta vicino,
come dormendo, starò fiducioso
nel mio risveglio in un qualche mattino.
E a primavera, fra mille richiami,
ancora vivi saremo di nuovo
e innalzerò le mie dita di rami
verso quel cielo così misterioso.

Ed in estate, se il vento raccoglie
l’invito fatto da ogni gemma fiorita,
sventoleremo bandiere di foglie
e canteremo canzoni di vita.
E così, assieme, vivremo in eterno
qua sulla terra, l’albero e io
sempre svettanti, in estate e in inverno
contro quel cielo che dicon di Dio

(Scritto il 15 aprile 2009)

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