Mi chiedo perché i Greci l’abbiano chiamata Aegylon Micron, “l’Isola Piccola delle Capre”, visto che è anzi un pochino più estesa dell’Aegylon Megas, l’Isola Grande delle Capre, ovvero Capraia. Stiamo parlando dell’isola del Giglio, se non fosse chiaro.
Capre o non capre, qualcosa di simile le due isole ce l’hanno davvero, ma è forse più quello che hanno di diverso a caratterizzarle. Il primo impatto sbarcando a Giglio Porto – a voler fare un po’ gli snob – non è stato esaltante: automobili, qualche camion e un “fracco de ggente” che parla romano, romanesco, o con evidenti accenti laziali-e-affini. Per carità, ottime persone, poi il Lazio e Roma sono a uno sputo dal Giglio quindi è facile che ci vadano in tanti, ma è come – che so – arrivare in un paese della Val d’Aosta e sentir parlare milanese. Sciupa la poesia del luogo, ecco…
Poi ti abitui, ti rendi conto che anche i gigliesi parlano un po’ così, e non ci fai più caso. Rimane comunque quella sensazione di turismo un po’ di massa che va benissimo il 2 settembre, certo, ma che ad esempio a Capraia il giorno prima non si avvertiva. Capraia pura e dura, con 800 metri di strada asfaltata soltanto, le poche case lungo il porto e il Paese su in alto, 40 abitanti stanziali in inverno e basta così. Al Giglio ci sono 650 abitanti fissi, 18 km di strade e tre centri abitati, Porto, Castello, Campese. L’autobus ci mette 20 minuti a fare tutto il percorso Porto-Castello-Campese; insomma, il Giglio è più “normale” rispetto a Capraia, e la differenza si nota.
Però poi, con calma, il bello di questo “scoglio di granito in mezzo al mare”, come lo chiamano i gigliesi, viene fuori: al di là dei traghetti e del rumore dei motori che ne sbarcano o si imbarcano, al di là anche dei negozietti di souvenirs un po’ identici a quelli di qualunque altro posto molto turistico, Giglio Porto si presenta poi bene, con le case dei pescatori intorno alla torre del Porto e lungo la passeggiata a mare; il granduca Pietro Leopoldo di Lorena a fine ‘700 invitò liguri e napoletani a trasferirsi qui, e da allora data la tradizione marinara del paese.
La “capitale” dell’isola è Giglio Castello, bellissimo borgo medievale in pietra proprio in cima al cocuzzolo al centro dell’isola; Castello è ufficialmente “uno dei Borghi più Belli d’Italia”, nel senso che appartiene a quell’associazione lì, ed è uno dei tanti paesuzzi arroccati sulle alture costiere del Mediterraneo, con le case strette l’una all’altra, circondati da mura che testimoniano la paura che all’orizzonte appaiano le vele dei pirati e la speranza che bastino questi macigni di granito a fermarne la violenza. Comunque i saraceni hanno lasciato tracce, almeno nel lessico: anche qui come a Capraia i torrenti si chiamano “vadi”, nome probabilmente derivato dall’arabo “wadi”.
E poi c’è Campese, un tempo abitato da poche famiglie di pescatori intorno alla possente torre di guardia eretta dai Medici a fine Seicento. La sua bella spiaggia chiara quarzosa e ferrosa attirò l’attenzione dei “valorizzatori” e negli anni Sessanta iniziarono a venir su case, seconde case, alberghetti e insomma, l’ambiente naturale è ancora bellino e la torre fa la sua figura ma l’aria generale del borgo tutto-turistico è un po’ così, se non proprio brutto almeno assai banalotto. Mi si dice che la torre ospita in primavera una chiassosa colonia di rondoni e rondoni maggiori, che ovviamente a settembre se n’erano già iti via verso le savane africane.
Godendosi i bei panorami verso le altre isole, verso l’Argentario e verso la costa maremmana, sulle pendici intorno a Castello e su qualche pendio a picco sul mare prosperano parecchi vigneti che producono un bianco “potente”, l’Ansonica (o Ansonaco) e il Giglio Rosso da uve Sangiovese e Ciliegiolo – una cosa molto toscana dunque.
Famoso è anche – ma non ce ne siamo occupati di persona – il panficato, un dolce tipico gigliese che è una specie di pane rotondo con fichi secchi, noci, buccia d’arancia, mele e pere a pezzetti, cioccolato fondente e marmellata d’uva. Una cosina ipocalorica, insomma…
Poi c’è un gigliese quasi famoso, che nei due giorni trascorsi lì ai primi di settembre era nei discorsi di tanti e su tutti i giornali locali: si chiama Alessandro Bossini, ha una trentina d’anni e nuota e va in bici. E che c’è di strano? direte voi. C’è che lui nuota per 30 ore in mare aperto per percorrere le 29 miglia fra Montecristo e il Giglio, ad esempio (l’ha fatto proprio in quei giorni lì, e alle 4 del mattino – noi forestieri ignari dormivamo in albergo – c’era tutta l’isola ad aspettarlo in porto all’arrivo) oppure fa in periplo del Mediterraneo in bicicletta, fa il giro d’Italia, il giro dell’Australia, attraversa Nepal e India, tutto in bici. Un po’ – molto, credo io – perché si diverte, un po’ per diffondere idee di sviluppo sostenibile, conoscenza interculturale, pace e cose così. Una specie di eroe positivo locale, insomma.
A differenza dal giovinotto che disdegna le barche, ci sono invece dei gabbiani che hanno imparato a imbarcarsi sui traghetti, come il grosso gabbiano reale che è salito su quello del nostro ritorno e che se ne è venuto “a gratis” senza batter ala sino a Porto Santo Stefano e quando la nave ha attraccato in porto è partito in volo verso l’interno dell’Argentario, o verso la Maremma non so. Diceva un tizio che lo fanno spesso, i gabbiani gigliesi, di fare il traghettostop per andare in continente senza faticare. Immagino che sapesse l’ora del traghetto di ritorno per non far tardi al nido la sera. O magari dormiva al Tombolo della Feniglia da un’amica, chissà.
Infine: è assolutamente da fare il periplo dell’isola in gommone, ottimo modo per chi non frequenta le barche a vela (come me, come noi) per vedere bene le coste, le rocce a picco, le poche spiagge, le ville isolate, la cala dell’Allume dove c’era una cava sopra il mare, le pareti di granito che scendono verso l’acqua, i blu e i verdi dell’acqua fra scogliere e calette, insomma per capire meglio com’è fatta quest’isola. E tanto meglio se il “Capitano” del gommone è appassionato e innamorato della sua isola come lo era quello col quale abbiamo periplato noi; passione e amore assolutamente identici a quelli che trasparivano dalle parole e dalla faccia dell’altro “Comandante”, quello del gommone con cui avevamo fatto due giorni prima il periplo di Capraia.