Descrizione
In treno: bisogna arrivarci in treno. Bello anche via mare col Navebus ma il treno è il mezzo più logico per arrivare sin qui. “Qui” è il Parco di Villa Durazzo Pallavicini a Pegli, il Parco Pubblico più bello d’Italia dell’anno 2017, come è stato ufficialmente premiato pochi mesi fa.
A metà del XIX secolo Pegli era un borgo marinaro circondato da orti e ville nobiliari; il marchese Ignazio Alessandro Pallavicini – ricchissimo, di grande cultura, senatore del Regno, massone – volle realizzare un parco alle spalle della villa settecentesca di Gio.Battista Grimaldi che per via ereditaria era arrivata alla marchesa Clelia Durazzo, botanica di fama internazionale, e poi a lui, lontano nipote della marchesa. Ma non un qualsiasi parco di una qualsiasi villa: il marchese aveva una visione culturale-artistica-urbanistica di vasto respiro e il complesso che realizzò tra il 1840 e il 1846 fu un “unicum” tra i giardini romantici europei, che molto contribuì al rinnovamento urbanistico di Pegli: dal 1856, grazie alla costruzione della ferrovia, questo borgo a ponente di Genova divenne un centro turistico di fama europea; il marchese volle che la stazione ferroviaria sorgesse a brevissima distanza dalla sua villa, fece costruire l’Hotel Michel per ospitare i viaggiatori e il suo parco romantico divenne un motivo di grande richiamo, con migliaia di visite ogni anno.
Pallavicini fu l’ideatore e il finanziatore di questo grandioso progetto ma il genio che ristrutturò la villa in forme neoclassiche e progettò il parco fu l’amico Michele Canzio, figura tra le più versatili del panorama culturale genovese dell’epoca: scenografo e impresario del teatro Carlo Felice, insegnante all’Accademia Ligustica di Belle Arti, progettò la statua di Colombo in piazza Acquaverde, era un “florido ingegno” – come lo definì lo storico Federico Alizieri – capace di “avvicinare il grazioso al terribile, l’imponente al leggiadro, e parere ad un tempo architetto e meccanico, decoratore e scenografo, dipintore e poeta”.
Il parco fu inaugurato nel 1846 durante l’VIII Congresso degli Scienziati Italiani, cosicché numerosi studiosi botanici, invitati dal marchese, poterono ammirarlo. L’ultima proprietaria, Matilde Giustiniani vedova di Giacomo Filippo Durazzo Pallavicini, donò villa e parco al Comune di Genova nel 1928, con il vincolo di destinare l’edificio a uso culturale e mantenere il parco aperto al pubblico. Negli anni Sessanta il parco subì gravi danni per la costruzione della sottostante galleria autostradale e rimase chiuso per una ventina d’anni. Dopo lunghi lavori di restauro è stato parzialmente riaperto nel 1992 e, dopo altri lavori, dal settembre 2016 è pienamente accessibile.
Questo giardino che sale lungo 8 ettari di collina è un teatro all’aperto in cui si sviluppa un racconto esistenziale con significati esoterici; visitarlo è un’esperienza storica, paesaggistica e botanica ma anche filosofica, articolata in un prologo, tre atti di quattro scene ciascuno e un esodo finale. L’abbondanza di edifici e statue (opera di autorevoli artisti dell’epoca), laghi, cascate, piante autoctone o esotiche, scorci visivi e inganni scenografici rendono il Parco un luogo “magico” dove si passa da ambienti sereni e luminosi a luoghi ombrosi e inquietanti, in un pastiche storico che unisce scenografie neoclassiche ad ambientazioni medievali o esotiche, secondo lo svolgersi della trama scritta e realizzata dal regista Canzio. È il viaggio che ciascuno compie durante la propria vita, viaggio di crescita interiore che porta lo “spettatore-attore” che visita il parco ad approfondire il rapporto con la sua anima imparando a guardare il mondo per quella meraviglia che è.
Si entra dall’ingresso presso la stazione e si sale alla villa lungo un viale di lecci che scavalca la ferrovia: è bello immaginarselo – il viale ma anche tutto il parco – prima dello sviluppo edilizio del dopoguerra, quando la Piana Pallavicini tra la villa e il borgo di Pegli era verde di orti e aranceti, senza palazzi, autostrada, rumore dei camion, depositi di idrocarburi… Capisco la necessità di dare case e strutture alle crescente popolazione genovese del “boom economico”, ma il peccato di aver distrutto parchi e campagne per sostituirle con quartieri esteticamente banali, se non proprio brutti, non è facile da perdonare…
Dal piazzale della villa inizia l’Antefatto: si supera il cancello custodito dalle statue di due cani ringhianti accanto alla Tribuna gotica che anticipa l’apice del dramma che si svolgerà nel secondo atto; il Viale Gotico, scuro di lecci come la “selva oscura” dantesca, conduce al luminoso Viale Classico, quasi un boulevard parigino, simbolo della città ottocentesca, con la Coffee House e l’Arco di Trionfo neoclassici; qui un’epigrafe latina invita ad abbandonare il mondo urbano per scoprire la natura e i sentimenti più puri.
Oltre l’Arco inizia il Primo Atto: il ritorno alla natura. Il retro dell’Arco diventa un casolare rustico, il Romitaggio immerso in un bosco di montagna. Poi gli ambienti naturali cambiano: l’Oasi Mediterranea con palme e piante esotiche, il Belvedere (allora, era un belvedere…) con tre querce da sughero che sono tra le più settentrionali dell’areale mediterraneo. Oggi qui manca la Seconda Scena, il Parco dei Divertimenti, che rappresentava la gioia di chi gode i piaceri veri della natura e che fu spostato a fine Ottocento nella parte alta del Parco. Si raggiunge poi il Viale delle Camelie, magnifico da percorrere durante la fioritura primaverile; la collezione di camelie era un must nei giardini ottocenteschi: questa comprende cultivar pregiate di Camelia japonica impiantate intorno al 1856 mentre era capo giardiniere della villa Carlo Moroni, uno dei massimi esperti di camelie dei suoi tempi. La Terza Scena è il Lago Vecchio – la potenza ancestrale della natura – con la cascata e la maestosa araucaria, un ambiente suggestivo ricco di canti di uccelli e balzi di scoiattoli; superato il lago su un ponticello si sale alla Quarta Scena, la Sorgente, dove l’acqua è limpida e pulita come il nostro animo ormai redento dall’incontro con gli alberi e la vegetazione; il marchese fece costruire un acquedotto di otto chilometri per portare qui l’acqua necessaria al suo parco; in origine c’era un laghetto e una capanna rustica col tetto in paglia per poter sostare prima del Secondo Atto: il recupero della storia. È un viaggio nel Medioevo cavalleresco – mito della cultura romantica – e nello stile neogotico: la Cappelletta di Maria sta all’ingresso di un immaginario feudo trecentesco, indi si passa là dove sorgeva la Capanna Svizzera in legno davanti a un uliveto, che rappresentava il villaggio all’interno del feudo. Si sale quindi al Castello del Capitano, signore del feudo, a 134 metri di quota sulla sommità della collina, con la torre aperta verso un ampio panorama che spazia dal Monte di Portofino alla Riviera di Ponente, con i bastioni, i merli (fintamente diroccati da un bombardamento durante una guerra col feudo vicino), le stanze interne riccamente decorate. Il Castello è un’architettura “sacra” dove il bastione a base quadrata simboleggia il mondo materiale razionale e il torrione cilindrico è emblema della spiritualità raggiunta dopo l’ascesa dal mondo grezzo verso l’infinito. A poca distanza ecco il Mausoleo – ispirato alla tomba di Can Grande della Scala a Verona – che ospita l’urna con le ipotetiche spoglie del Capitano morto in guerra; lì vicino il cimitero – in rovina per le ingiurie del tempo – con le spoglie dei soldati del Capitano. Tutta fantasia, certo, anche se il paesaggio a monte del parco, con la vegetazione bruciata dall’incendio del gennaio 2017, rende più realistica la finzione della guerra contro il feudo vicino. E qui si conclude il percorso attraverso la storia, col corredo di morte e distruzione che la guerra e la ricerca del potere portano sempre con loro.
Il Terzo Atto è quello della Catarsi. Il percorso è tortuoso e buio all’interno di una grotta che contiene stalattiti e stalagmiti naturali illuminate da sprazzi di luce e raffigura gli Inferi: è ancora chiusa al pubblico ma in origine, dopo aver purificato la propria anima nelle viscere della terra, si saliva sulla barca di Caronte per entrare nel trionfo di luce e di aria del Lago Grande, immagine catartica del Paradiso. Il Lago è il punto più fotografato del parco e ci vuol poco a capire perché… Il Tempietto di Diana sta al centro del lago e lungo le rive sinuose ecco il ponte romano, la pagoda cinese, l’obelisco egizio, il chiosco turco a rappresentare tutti i popoli della Terra riuniti intorno alla luce divina. Intorno, alberi meravigliosi: una grande canfora, un cedro del Libano, un faggio pendulo… Sono tantissimi gli alberi d’alto fusto di pregio nel parco, autoctoni ed esotici: ci vorrebbe un articolo dedicato solamente ad essi per descriverli tutti. Dopo il lago ecco il Paradiso Terrestre, rappresentato dai Giardini di Flora – divinità madre dell’ordine del mondo – a cui si giungeva in barca: delizioso il tempietto ottagonale ornato di stucchi, vetri colorati e specchi; nel Viridario, con la serra neoclassica, la dea coltiva fiori anche durante l’inverno per assicurare la continuità della vita sulla Terra. L’ultima scena del Terzo Atto è la Rimembranza, una tranquilla composizione funebre dedicata al poeta Gabriello Chiabrera: la morte ma non quella violenta del Capitano bensì il ricordo dei valori positivi e delle azioni meritorie che ognuno di noi dovrebbe fare affinché la nostra vita sia un percorso di crescita. Lo spettacolo teatrale è terminato, rimane l’Esodo per tornare alla vita “normale” portando con noi tutto ciò che di bello e di buono abbiamo appreso e fatto nostro durante il percorso; l’ultimo tratto è giocoso: attraversando il Labirinto, il Chiosco delle Rose, e anche sul Ponte Cinese nel lago e sulla vicina altalena si viene gioiosamente bagnati da spruzzi d’acqua improvvisi; nell’Ottocento questo divertissement era uno dei momenti più apprezzati dell’intera visita.
Questo parco è una realtà complessa e affascinante, che offre molteplici e differenti chiavi di lettura intrecciate tra loro: botanica, architettonica, storica, teatrale, morale, esoterico-spirituale… Chiunque può goderselo secondo la propria personale capacità e volontà di percepirne e comprenderne i significati, dalla semplice meraviglia per la varietà di paesaggi e le ambientazioni esotiche sino alla più complessa lettura esoterica secondo cui le diverse ambientazioni dissimulano un percorso d’iniziazione massonica alla ricerca della verità attraverso la conoscenza. Un capolavoro di cui Genova deve andare orgogliosa, a cui auguriamo il maggior successo oggi e per sempre.
Note
1) Una “strana impresa”
Il Parco è stato oggetto di un impegnativo intervento di restauro progettato dallo studio Ghigino&Associati Architetti e durato sei anni, con una spesa di circa 4 milioni di euro. Alla conclusione il Comune di Genova ha affidato la gestione del bene all’ATI Villa Durazzo Pallavicini, associazione temporanea di imprese composta dall’Associazione Amici di Villa Durazzo Pallavicini, la Cooperativa sociale l’Arco di Giano e lo studio degli architetti progettisti. Dal 2016 il Parco è amministrato dall’ATI che comprende persone che ne riconoscono il grande valore storico, artistico, paesaggistico e filosofico, opera con una quindicina di dipendenti stipendiati ma offre anche un volontariato attivo. Scopo dell’ATI è riportare e mantenere nel tempo il Parco ai suoi originari splendori, valorizzarlo con visite adatte ai suoi contenuti, restaurare le parti ancora non accessibili anche attraverso il reperimento di fondi, sviluppare la divulgazione turistica a livello nazionale ed europeo. Il suo grande valore filosofico-esoterico viene divulgato attraverso gli “Incontri con il Direttore”, l’architetto Silvana Ghigino, che da oltre trent’anni ne studia i contenuti esoterico-massonici.
2) Il Museo di Archeologia Ligure
All’interno della villa documenta la vita dei popoli preistorici e protostorici della Liguria; custodisce oggetti provenienti dalle grotte dei Balzi Rossi, Toirano e Finalese, sepolture paleo-neolitiche e dell’Età del Ferro, i corredi funebri della necropoli preromana di Genova. Sono anche esposte antichità egizie della collezione del Capitano D’Albertis e una raccolta di vasi antichi del Principe Oddone di Savoia. Tra i reperti più importanti vi sono la sepoltura paleolitica detta “del Principe”, un giovane alto e robusto di circa 15 anni di età con un ricchissimo corredo funerario, la statua-stele di Zignago, la prima delle enigmatiche steli ritrovate in Lunigiana che raffigurano guerrieri dell’Età del Rame, la Tavola Bronzea del Polcevera che testimonia la vita delle popolazioni del Genovesato nel II secolo a.C.
3) L’Orto Botanico
A margine del parco, il Giardino Botanico intitolato a Clelia Durazzo, esteso 4500 m², ospita circa 1500 specie di piante esotiche e autoctone. Fu realizzato a partire dal 1794 da Clelia Durazzo e nel tempo conobbe una grande notorietà internazionale. Dal 1928 divenne un vivaio per piante e fiori destinati ai giardini pubblici di Genova; negli anni Ottanta le collezioni furono molto accresciute e interventi di miglioria sono stati eseguiti sino al 2004.
Bibliografia
Comune di Genova, Parchi e ville a Genova, Galata edizioni, Genova, s.d.
Fabio Calvi e Silvana Ghigino, Villa Pallavicini a Pegli, l’opera romantica di Michele Canzio, Sagep, Genova, 1998
Ringraziamenti
Alla Direttrice, architetto Silvana Ghidino, per la sua disponibilità, la sua gentilezza e la disinvoltura con cui conversa di questioni amministrative o filosofiche – come un direttore – mentre tiene piante e bulbi da piantare tra le mani sporche di terra – come un giardiniere.
Info
Villa Durazzo Pallavicini
Via Ignazio Pallavicini, 13, 16155 Genova
tel 393 88 30 842, 010 853 1544
info@villadurazzopallavicini.it
wwww.villadurazzopallavicini.com