La villa del Balbianello, una perla del Lago di Como

Rivista: La Casana
Editore: Carige
Luogo di pubblicazione: Genova
Data: 2008, anno L, n°2 
(pubblicato sotto pseudonimo)

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Descrizione

Bisogna arrivarci dal lago.
C’è anche un percorso pedonale che sale il promontorio fra gli alberi fitti, ma per godere interamente del suo fascino è molto meglio raggiungerla dall’acqua.

L’optimum sarebbe salpare dalla riva opposta del lago e avvicinarsi con calma lasciando che il campo visivo si riempia lentamente dei colori tenui dell’edificio immerso nei verdi diversi del bosco, ma va benissimo salire sul piccolo motoscafo che fa servizio dal lido di Lenno e gustarsi i cinque minuti di traversata sulle acque blu cupo del più bello fra i laghi italiani, costeggiando le pareti verticali e verdissime del piccolo promontorio. Un promontorio che ospita un tesoro quasi nascosto di architettura, natura, cultura; un luogo che è al contempo un capolavoro del paesaggio umanizzato e la testimonianza della personalità di un grande – benché poco noto al grosso pubblico – italiano del XX secolo.
La villa del Balbianello col suo giardino a terrazze occupa la punta del Dosso di Lavedo, sulla costa occidentale del lago di Como, da poco più di due secoli: era la fine del Settecento quando il cardinale Angelo Maria Durini acquistò questo magnifico promontorio per costruirvi un dimora che fosse luogo di villeggiatura, di delizie e di otium letterario e artistico. In generale i cardinali di Santa Romana Chiesa hanno sempre avuto cultura, buon gusto e denaro e Durini non faceva eccezione: forse era più poeta e artista che pastore d’anime, certo sapeva il fatto suo.

La punta del promontorio fino al XVI secolo aveva ospitato un piccolo convento di frati cappuccini poi andato in rovina e di cui rimane la stretta facciata della chiesetta coi due campanili; su questi resti fu impostata la villa, costituita da due corpi quadrangolari comunicanti e da un elegantissimo loggiato panoramico che si affaccia a nord sul golfo di Venere aperto verso la Tremezzina, lo specchio di lago fra Tremezzo e Bellagio, e a sud sul golfo di Diana che guarda verso l’Isola Comacina. Il nome dell’edificio deriva dal fatto che il cardinale già possedeva nella vicina località di Ossuccio la cinquecentesca villa Balbiano così questa, più piccola e più giovane, fu naturale chiamarla Balbianello. L’ingresso principale era quello dal lago e gli ospiti sbarcavano accolti dal motto Fay ce que voudras (Fa’ ciò che vuoi) inciso sul pavimento del portico sovrastante il porticciolo – motto che volendo vedere le cose da un punto di vista religioso potrebbe essere stato ispirato al cardinal Durini da Sant’Agostino quando dice “ama, e fa’ ciò che vuoi”; poi salivano alla villa lungo una ripida scenografica scalinata a picco sul lago, come fanno ancora oggi i visitatori che però approdano a un vicino e più recente imbarcadero. Uno degli ospiti illustri di Sua Eminenza fu Giuseppe Parini che qui compose L’Ode XXII. La gratitudine dedicata proprio al cardinale.

Il cardinal Durini morì nel 1797 e la villa passò in eredità al nipote Luigi Porro Lambertenghi che doveva avere una Weltanschauung un po’ diversa dallo zio giacché ne fece un ritrovo per patrioti, carbonari e massoni dando accoglienza fra gli altri a Silvio Pellico come precettore dei suoi figli, il quale nel carcere dello Spielberg ricorderà con nostalgia i giorni del Balbianello. Luigi poi si autoesiliò in Belgio vendendo la proprietà all’amico Giuseppe Arconati Visconti che con la moglie Costanza fece della villa un salotto estivo di grande prestigio che ebbe come ospiti Alessandro Manzoni, Giuseppe Giusti, Giovanni Berchet. Passò poi al loro figlio Gianmartino, erudito orientalista e convinto anticlericale che la arricchì di arredi e libri e aggiunse il parapetto in pietra che delimita la terrazza e che riporta scolpito lo stemma visconteo. Poi però il casato si estinse e per trentanove anni la villa fu abbandonata finché nel 1919 suscitò l’interesse del generale americano Butler Ames che si dedicò a importanti restauri e al recupero degli arredi degli Arconati. Vent’anni dopo la morte del generale, nel 1974 gli eredi vendettero la proprietà al conte Guido Monzino, un imprenditore milanese di solida famiglia altoborghese con la passione collezionistica di manufatti e oggetti d’arte internazionali che andava acquistando alle migliori aste di Londra e New York e, soprattutto, alpinista di valore e appassionato viaggiatore nelle regioni più impervie del mondo; pur essendo vissuto pienamente nel XX secolo fu un esploratore nel senso ottocentesco del termine, amante della sfida con la natura, anzi con un minimo di retorica possiamo dire con la Natura, quella non antropizzata, quella che nell’inglese internazionale contemporaneo si suol definire wilderness: per “farsi le ossa” in gioventù scalò e percorse quasi ogni cima alpina, il Kilimangiaro e altre vette africane, poi, insieme a un gruppo di più giovani e fedelissime guide alpine di Valtournenche fece tre viaggi in Groenlandia e nel 1971 organizzò una spedizione al Polo Nord con equipaggiamento totalmente inuit: lunghe slitte da carico in grado di superare i crepacci del pack e mute di cani per trainarle; due anni dopo, nel 1973, organizzò e guidò la prima spedizione italiana all’Everest.  …

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