Nella foresta di Vallombrosa, tesoro dell Appennino toscano

Rivista: La Casana
Editore: Carige
Luogo di pubblicazione: Genova
Data: 2010, anno LII, n°2
(pubblicato sotto pseudonimo)

Descrizione

Sponte sua quae se tollunt in luminis oras, infecunda quidem, sed laeta et fortia surgunt, quippe solo natura subest…

“(Gli alberi) che si elevano spontaneamente negli spazi della luce, crescono infecondi, ma rigogliosi e forti, perché nel suolo
c’è la forza della natura…”

Quando Virgilio scriveva le Georgiche, sui monti del Pratomagno fiorentino c’era solo un anonimo lembo dell’immensa selva post-würmiana che ricopriva il continente europeo. Fu solo dall’XI secolo che Vallombrosa assunse un significato particolare nel paesaggio silvestre italiano…

Col motto ora et labora i monaci benedettini coltivavano le campagne, piantavano ulivi e viti e dove il territorio era inadatto all’agricoltura sfruttavano le foreste per l’impiego del legname. Come nella foresta di Vallombrosa o, per dirla in termini moderni, nella Riserva Naturale Statale Biogenetica di Vallombrosa, che circonda l’omonima abbazia a 950 metri di quota nel profondo Appennino Toscano. La storia di Vallombrosa inizia nel 1035, quando il monaco fiorentino Giovanni Gualberto, disgustato dal simoniaco vescovo di Fiesole, dette vita alla riforma monastica Vallombrosana, che riformava la regola benedettina. Giovanni Gualberto morì nel 1073 e col passare del tempo il monastero aumentò le sue proprietà fondiarie mentre i monaci si dedicavano allo sfruttamento forestale, all’allevamento ovino e alla frutticoltura. Tutto bene sino al 1810, quando l’Impero Francese (di cui la Toscana era parte) decretò la soppressione delle congregazioni religiose; i monaci tornarono nel 1818 ma nel 1866 il governo italiano abolì gli ordini monastici e i vallombrosani dovettero riandarsene. Foresta e abbazia passarono al Corpo Forestale, che nel 1867 istituì il primo corso d’istruzione superiore in scienze forestali; nel 1869 – insieme al tedesco Adolf Von Berenger, “padre” delle scienze forestali in Italia – fondò nell’abbazia la prima Scuola forestale italiana e attivò il primo Corso di Laurea in Scienze Forestali, che nel 1914 sarà trasferito a Firenze, lasciando a Vallombrosa il ruolo di foresta didattica per la formazione dei Dottori Forestali.

Nel 1949 l’abbazia è tornata ai monaci, pur restando proprietà dello stato; oggi i monaci sono dieci e il chiostro quattrocentesco, la grande cucina e il refettorio con 40 posti sono poco utilizzati. L’abbazia mantiene ottimi rapporti coi forestali – di cui San Giovanni Gualberto è il patrono – e il 12 luglio di ogni anno per la festa del Santo si celebra il “matrimonio” fra i monaci e il Corpo Forestale; è di nuovo viva dal punto di vista religioso, come centro di cultura con le sue opere d’arte – da Andrea della Robbia al Barocco – e per la vendita di prodotti farmaceutici e alimentari realizzati con ciò che cresce nella foresta, tra cui un particolarissimo liquore digestivo a base di essenza d’abete.

La Riserva si estende su 1273 ettari fra i 470 e i 1440 metri di quota; il substrato geologico consiste in grossi banchi di solida arenaria oligocenica alternati talvolta a strati scistosi argilloso-arenacei alterabili. Si originano suoli bruni acidi, poveri di calcare, adatti alla crescita di foreste ma solo parzialmente alla coltivazione dell’abete. Il clima è molto umido ma non rigido, con temperature medie di 1,5°C a gennaio e 19°C a luglio, 1300 mm di pioggia annua con massimo autunnale: il nome Vallombrosa viene da vallis imbrifera, ovvero molto piovosa…

Dal punto di vista fitoclimatico, la classificazione di Pavari-de Philippis pone la foresta nel Castanetum sotto i 1000 metri di quota e nel Fagetum sopra: ciò significa che le specie spontanee predominanti sono il castagno (Castanea sativa) in basso e il faggio (Fagus sylvatica) in alto.

Vallombrosa è importante grazie ai monaci, che dal 1300 crearono una vasta abetina di abete bianco (Abies alba) per sfruttarne il legname; essa è di estremo interesse naturalistico perché l’abete bianco – albero tra i più belli ed eleganti della nostra flora – non origina spontaneamente boschi puri nell’Appennino, questo è un unicum vegetazionale. I monaci sfruttavano la foresta praticando il “taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata” a settori, con cadenza di circa 100 anni; i tronchi venivano trainati da buoi sino all’Arno, al porto fluviale di Sant’Èllero, poi su zatteroni scendevano sino a Firenze e a Livorno, utilizzati per edilizia e cantieristica navale.

Il metodo di taglio dei monaci non è più usato: dal 1970 il Corpo Forestale dello Stato gestisce l’area non per sfruttare il legname ma per conservare la foresta, lasciando che la vegetazione naturale riprenda lentamente il sopravvento senza però portare a estinzione l’abetina. La variabilità specifi ca della foresta è alta: l’abetina copre 664 ettari e sta lentamente cedendo il posto alle specie spontanee naturali, faggio alle alte quote e castagno con varie latifoglie (carpino, cerro, roverella, faggio, orniello, acero alpino…) in basso.  …

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