Descrizione
Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ‘nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto
Le rumorose spettacolari selvagge cascate dell’Acquacheta che Dante tanto apprezzava sono in alto, nascoste fra le profonde forre boscose di quel paradiso naturale che porta il nome pletorico di Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, ma che con meno burocrazia si potrebbe definire Parco dell’Appennino Tosco-Romagnolo e rimarrebbe magnifico uguale. Il borgo rurale di Premilcuore sta più in basso, nella mezza collina dei 450 metri, presso il torrente Rabbi, corso d’acqua intensamente appenninico che scendendo verso Forlì forma stupende pozze, laghetti e cascate azzurre e verdi, molto amate in estate dai giovani tuffatori2. In dialetto è Premaicur e ha una storia antica, iniziata forse nel 215 d.C. quando il centurione Marcelliano si sarebbe rifugiato con alcuni soldati nella boscosa e disabitata vallata per sfuggire alla vendetta dell’imperatore Caracalla che lo accusava di ribellione. Da questo piccolo gruppo di soldati ebbe origine una comunità di genti dedite alla pastorizia, all’agricoltura e alla caccia nella valle del Rabbi. Il primo documento che parla esplicitamente del Castrum Premilcori risale al 1124, e lo descrive come possesso dell’Abbazia di San Benedetto in Alpe. Dopo le solite vicende feudali, nel 1404 entrò nei possedimenti di Firenze e rimase sempre toscano, anche dopo l’unità d’Italia, sino al 1923 quando passò dalla provincia di Firenze a quella di Forlì. Oggi è un delizioso borgo di collina, la cui purezza urbanistica è stata preservata dallo spopolamento progressivo avvenuto nel XX secolo per scarsità di occasioni di lavoro. Male per chi ha dovuto emigrare, ma buon per l’antica Rocca, le mura con la Porta Fiorentina, la torre con l’orologio, i Palazzi Briccolani e Giannelli, gli oratori di San Lorenzo e del Mogio, la Pieve di San Martino, il ponte romano sul torrente, che non hanno subito gli attacchi sguaiati dell’edilizia contemporanea.
Comunque cinque secoli di dominio fiorentino non sono passati invano, e le tracce rimangono evidenti nell’architettura delle case, nel dialetto e nella cucina, che hanno quelle caratteristiche intermedie tipiche di questa terra di confine che prende il nome di Romagna Toscana. Il segno più evidente della “toscanità” di queste terre è l’uso delle cornici di pietra alberese (un’arenaria grigia locale molto bella) intorno alle finestre e ai portoni delle case.
Con lo stesso andamento sudovest-nordest, altri torrenti oltre al Rabbi scendono dai crinali appenninici verso la pianura di Forlì e di Cesena: si chiamano Marzeno, Montone, Bidente, Savio e parte delle loro alte valli rientrano nei confini del Parco Nazionale. In queste terre è ancora viva una tradizione agropastorale più che millenaria, che fra i suoi prodotti annovera un formaggio raro e difficile, convinto assertore della filosofia “no global” dell’hic et nunc: è un prodotto locale non solo nel senso spaziale del “qui” ma anche in quello temporale dell’”adesso”. Perché i suoi caratteri intrinseci ne rendono impossibile la conservazione e il trasporto a lunga distanza.
Si chiama raviggiolo; è un formaggio fresco che nella sua versione romagnola si produce esclusivamente con latte vaccino crudo. E già la sua prima peculiarità è questa, di essere fresco a latte crudo, a differenza dei normali formaggi a latte crudo che vanno stagionati almeno 60 giorni.
Si potrebbe dire che è un formaggio rinascimentale, perché il primo documento conosciuto che ne parla esplicitamente è datato 1515: risulta che in quell’anno il Magistrato Comunitativo della terra di Bibbiena (in Toscana, nel Casentino) donò a papa Leone X (il fiorentino Giovanni de’Medici, secondogenito di Lorenzo il Magnifico; fu papa dal 1513 al 1521) raviggioli presentati in un canestro e ricoperti di felci. Molto tempo dopo suscitò l’interesse del “maestro di cucina” Pellegrino Artusi, che nella sua opera magistrale La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, indicò il “cacio raviggiolo” come ingrediente principale per i cappelletti all’uso di Romagna. …