Descrizione
Quando ero ragazzo ogni anno andavo pochi giorni prima di Natale con mio padre a Voltaggio, suo paese d’origine nell’Oltregiovo, a salutare la Zia Gigetta, zia di mio padre maestra della cucina genovese d’entroterra; dovevamo prendere i suoi pandolci fatti in casa: morbidi, profumati, saporiti “pandolci genovesi alti” preparati con lievito naturale, burro, tuorlo d’uovo, uvetta, scorza di cedro e d’arancio, pinoli, semi d’anice, acqua di fiori d’arancio. Quando la Zia Gigetta lasciò questo mondo la meritoria missione di impastare una ventina di pandolci per tutta la famiglia passò a sua figlia Maria Teresa; da lei appresi che le creature non venivano cotte in casa ma portate a un forno che in quei giorni faceva un superlavoro perché quasi tutti in paese preparavano in casa i pandolci ma pochi avevano un forno adatto alla loro cottura. Ho sentito dire che c’era chi si portava l’impasto a letto perché lievitasse accanto al “prete”, attrezzo ormai reperibile solo nei musei etnografici ma un tempo necessario per sollevare le fredde lenzuola invernali attorno allo scaldino. Ogni massaia era attenta a ritirare dal forno i propri pandolci, quelli impastati e preparati con le sue proprie mani, che come “ventiquattresima bellezza” – se posso citare il grande Giovanni Ansaldo – portavano impresse le proprie impronte digitali. Durante il pranzo di Natale mio padre accompagnava il pandolce con mostarda di frutta; mi risulta che questo connubio sia una peculiarità di Voltaggio, già a Gavi è considerata una bizzarria. Altrove non so.
Chissà chi ha preparato il primo pandöçe… Per gli esperti (si consulti ad esempio l’Atlante regionale dei Prodotti tradizionali di Liguria) leggenda vuole che Andrea Doria avesse bandito un concorso tra i pasticceri di Genova per creare un dolce che rappresentasse la ricchezza della città, fosse nutriente e si conservasse nei viaggi per mare. Lo storico Luigi Augusto Cervetto sosteneva che ha origini persiane, deriverebbe dal pane con mele e canditi che all’alba del capodanno il suddito più giovane portava al Re in dono beneaugurale. Gli ingredienti fanno pensare che abbia effettivamente origini mediorientali e che i mercanti genovesi lo abbiano portato in patria dove subì modifiche e arricchimenti. Ma il pandolce è nato “alto” o “basso”? Chi dice che sia nato alto, lievitato naturalmente e con tempi di preparazione molto lunghi (10-12 ore), chi dice sia nato basso perché nei lunghi viaggi per mare si conservava meglio. Oggi il “basso” si fa col lievito di birra industriale, veloce e comodo; quello “alto” deve avere il lievito naturale, se no è un fac simile senza personalità. Il lievito naturale “è un miracolo che si ripete ogni giorno ma ha bisogno di cure assidue, deve essere curato, nutrito e soprattutto capito”; è un impasto di farina e acqua dove convivono in sintonia diverse specie di lieviti, il cui genere dominante è il Saccharomyces, e di batteri lattici del genere Lactobacillus. Poi c’è il taglio triangolare che si fa sulla sommità: la leggenda dice che era il simbolo di un nobile decaduto ma amato dal popolo; in realtà tagliare l’impasto migliora la cottura perché l’anidride carbonica esce e lo gonfia un pochino di più.
Era tradizione che il più giovane della famiglia lo portasse a tavola con un rametto d’alloro inserito come simbolo di benessere e fortuna e lo consegnasse al pater familias per il taglio; una fetta era tenuta da parte per i poveri e un’altra si conservava per il 3 febbraio, festa di San Biagio protettore della gola. La genovesità del pandolce è riconosciuta anche all’estero: nel Regno Unito esiste un Genoa cake che è ufficialmente una versione locale del pandolce genovese basso.
Quando anche la cugina Maria Teresa mancò, accadde quel che canta Giorgio Gaber nella canzone “1981”: e rimpiangevo le piccole sapienze che ogni trapasso lascia, e poi non resta niente. La nobile arte di preparare in casa il pandolce non ha avuto eredi nella mia famiglia, la sapienza antica è andata dispersa; ma a Genova e nel Genovesato vi sono pasticcerie di quartiere e blasonate industrie dolciarie che preparano ottimi pandolci tradizionali quindi il Natale (o Dënâ) è salvo, sempre e comunque.
Ringraziamenti
A mio zio Gianfranco Dall’Aglio, “memoria storica” dell’aneddotica di famiglia.
A Gildo Grondona per l’affascinante lezione di cultura, storia e microbiologia alimentare che ho ascoltato nel suo ufficio di “artigiano industriale”, rammaricandomi di averla dovuta riassumere troppo per stendere questo articolo.