Asiago e la Grande Guerra
Ferragosto 2018, cinque giorni con Paola M. sull’altopiano di Asiago e negli immediati dintorni, tra il verdeggiante lago di Levico e le afose Marostica e Vicenza.
Bello, l’altopiano. Insolito per me ligure-piemontese, regioni dove a mille metri di quota sei in montagna e non in una cittadina quasi pianeggiante. Si va ben, a esser pignoli qui da noi c’è l’alta Val d’Aveto che sta sui 700 metri ed è piatta. Ma là fa più effetto, Asiago è ben più grossa di Rezzoaglio. In realtà a scuola a geografia si imparava che gli altopiani sono generalmente pianeggianti ma anche “scavati dal corso dei fiumi”, quindi in pratica a fronte di vaste aree pianeggianti ci sono valli e colline, pur essendo comunque tutto altopiano, e infatti anche intorno ad Asiago è così. Ma insomma, il concetto di altopiano andando ad Asiago l’ho compreso bene, dai.
Le strade e le piazze di Asiago, pianeggianti a mille metri di quota, erano eleganti, fresche e animate, piacevoli di giorno come di sera. Il primo pomeriggio appena arrivati ci siamo fatti una passeggiata di un’ora lungo un sentiero nei prati mentre iniziava a farsi sera. Una cosa che non faccio mai: se passeggio sono nelle vie di Genova o di Sanremo, paesaggio urbano, al massimo a Sanremo c’è la pista ciclabile, bellissima ma è sul mare; qui era un vero sentiero quasi pianeggiante in un vero prato, di quelli che ci fanno il fieno. Ricordo con particolare piacere quella passeggiata anche perché mi ha riportato a dei ricordi antichissimi e confusi ma a cui sono molto affezionato: quando, bambino di cinque o sei anni, mia nonna materna mi portava a fare delle passeggiate nei prati “in Pianella” a Cantù.
Cantù, già capitale dell’industria del mobile in Brianza, dove mio nonno era direttore della locale agenzia della Banca Popolare di Novara. Ho ricordi molto vaghi di quei soggiorni dai nonni (erano più di mezzo secolo fa) ma altrettanto piacevoli. Il terrazzo da cui si vedeva il Monte Rosa, la macchinina rossa a pedali… e i pomeriggi in Pianella, lungo viottoli che mi piace immaginare che fossero simili a quello su cui camminava Don Abbondio quando venne fermato dai Bravi.
Ci sono tornato alcune volte a Cantù a distanza di quaranta-cinquant’anni, una volta ho voluto cercare la Pianella, un vigile gentile mi ha dato le dritte per andarci, mi ha detto “la troverà molto diversa da come se la ricorda” e infatti c’erano case e strade in stile Ragazzo della Via Gluck. Ville e giardini, anche, ma niente prati liberi, niente sentieri… Quella passeggiata nei prati di Asiago, nel sereno tramonto agostano, per me è stata ancora più bella perché camminando pensavo a un bambino che andava a raccogliere fiori con sua nonna in quel di Cantù, un sacco di tempo fa.
Ad Asiago e in tutto l’Altopiano dei Sette Comuni c’è stata la Grande Guerra. La Prima Guerra Mondiale, quella finita centoun anni fa. Su quell’Altopiano si possono imparare molte cose su quell’assurdo massacro intraeuropeo. Il confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico era lì a due passi, ragion per cui tutti quei paesi sono stati coscienziosamente rasi al suolo, i boschi distrutti, le montagne riempite di trincee, fortilizi, gallerie, batterie… Nessun paese dell’altopiano ha un centro storico vero, perché sono stati tutti ricostruiti dopo il 1918. I bei boschi fitti dei dintorni sono stati piantati a guerra finita (come – se ho capito bene – quelli distrutti dal vento in Cadore a fine ottobre). Non c’è quasi niente che abbia più di un secolo di vita, lassù. Sono rimaste le trincee ormai confuse nella vegetazione, ci sono lunghi percorsi scavati nelle montagne dai soldati (con una fatica fisica che credo oggi sia inimmaginabile), piccoli musei della guerra, forti militari.. Gallerie e strade a strapiombo su pareti verticali scavate con dinamite, pala, piccone, muli; più che soldati, quei giovani uomini venuti da ogni landa d’Italia sono stati carpentieri, muratori, mulattieri, scavatori, minatori, facchini.
Tutto tragicamente affascinante. Tutto conservato… bah, mi chiedevo e mi chiedo, hanno conservato tutto per chi e per cosa? Per sfruttarlo a scopo turistico, a scopo di lucro? Certo, la gente viene qui per provare a immaginare a capire come poteva essere la scomodissima vita dei fanti della Grande Guerra e paga per vedere e conoscere questo. Ma mi sono fatto persuaso che tutto il grandeguerrume che affolla i borghi e le montagne dell’Altopiano sia stato conservato soprattutto per loro, per gli abitanti, per i discendenti di quelli che un secolo fa hanno perso la vita o la casa durante i quattro anni di “inutile strage” (papa Benedetto XV dixit). Ho ricavato la sensazione che la Prima Guerra Mondiale sia ancora ben presente dentro l’anima di chi vive sull’altopiano, non sia ancora diventata storia, al massimo è cronaca appena passata, anche se sono trascorsi cento anni. Il turismo e i turisti sono un elemento secondario. Utile per lavorare e per vivere, ma non il principale.
Chissà cosa faranno e come vivranno e cosa penseranno gli abitanti – che so – della Siria tra cent’anni. Chissà se la loro guerra del XXI secolo diventerà un’attrazione turistica e insieme una parte della loro anima di siriani postbellici. Forse è un pensiero insulso.