Quattordici anni, sette mesi, diciotto giorni.
Quasi quindici anni possono essere anche una discreta quantità di tempo: parecchi matrimonî durano molto meno. Devo esserne ragionevolmente soddisfatto? Mah… Comunque è andata così, ormai lo sapete tutti da tempo, una leucemia linfoblastica acuta accompagnata da un coacervo di complicazioni varie e sparse si è portata via Donatella dopo 43 giorni di ospedale tra febbraio e marzo, un giorno a Sanremo e gli altri a Genova. Il 17 marzo, data dell’exitus (come sta eufemisticamente scritto sulla cartella clinica) aveva 56 anni, 5 mesi e 5 giorni.
A fine dicembre stava bene, in gennaio ha avuto un ascesso a un dente che non è guarito nemmeno con molti antibiotici, poi sono comparsi quelli che sembravano effetti da intossicazione da antibiotici ma nel giro di tre o quattro giorni la situazione è degenerata tanto da dover correre in ospedale e lì la diagnosi è stata chiara e grave: crisi leucemica acuta. Una leucemia che a detta dei medici poteva essere iniziata non più di tre settimane prima. A Capodanno era tutta sana, un mese dopo era avviata verso la sua fine. Vengono in mente i poeti: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, e anche “ragazzo, noi siamo bugie del tempo, appesi come foglie al vento di mistral”. La prima settimana di cure al San Martino di Genova sembrava le avesse fatto bene e i medici erano contenti (e anche noi, e anche lei), ma era solo un’illusione.
L’ultima comunicazione normale con Dona è della prima settimana, quando appunto il primo (e unico) ciclo di blanda chemioterapia l’aveva un po’ rimessa in sesto e scherzava con gli amici che venivano a trovarla e guardava in tv il Festival di Sanremo… Poi c’è stato un paio di sere in cui per qualche effetto secondario di qualche medicinale ebbe come delle allucinazioni surreali: una sera mi chiese se vedessi anch’io sul muro bianco di fronte al suo letto quelle scene “di battaglie navali, dei mori, di Venezia” che vedeva lei… Poi è stato un decadere verso espressioni via via con meno senso, e poi il tacere e comunicare solo con gli occhi e le mani, a cercare un contatto visivo e tattile che peraltro ha sempre trovato da chiunque fosse lì con lei.
Storia di vita vissuta: Dona è morta il 17 marzo, il 6 aprile è stato come ogni anno il mio compleanno, non avevo voglia di passarlo a Genova o a Sanremo, ho fatto un giro di tre giorni qua e là in Emilia, a trovare alcune persone amiche e conoscenti. Prima tappa a Faenza, dalle suore domenicane del convento Ara Crucis, che avevamo conosciuto grazie alla zia Meletta (quella 93enne con 18 gatti) che era amica della madre superiora. Con Dona eravamo andati a conoscere queste suore in dicembre, tre giorni tra Faenza e Ravenna, ignari del fatto che quello sarebbe stato il nostro ultimo viaggetto coniugale. Ci eravamo reciprocamente piaciuti, Dona e io con la madre superiora Suor Emanuela e la sua sorella (anche di sangue) Suor Caterina. Suore di clausura ma di una clausura ben aperta al mondo e soprattutto due persone che definire deliziose è il minimo che si possa dire. Anche giovani, pur sotto il velo capimmo subito che erano entrambe più giovani di noi. Quel giorno e mezzo che trascorremmo in dicembre loro ospiti fu per noi un’inaspettata gioia dell’anima. Grazie alla zia Meletta.
Eravamo rimasti in contatto quindi avevano seguito la vicenda di Dona via sms e telefonate con affetto, affanno e preghiere. Avevo scritto loro che qualunque sarebbe stata la conclusione della vicenda saremmo/sarei andati/o a trovarle, o con Dona o da solo ma ci saremmo rivisti. E così fu: arrivai la sera del 5 aprile, stetti lì per la cena e la notte a dormire nella loro foresteria, partecipai alla messa mattutina, feci colazione, ancora qualche chiacchiera affettuosa, poi via verso nuovi lidi. Spero che il Signore mi concederà di rivederle ancora in futuro. Faenza non è poi lontana.
MA….. ma in tutto ciò ci fu un inaspettato e piacevolissimo “imprevisto”: per raggiungere Faenza feci quello che amo fare quando viaggio senza urgenze, ovvero cincischiare lungo la via. Andai in autostrada da Genova a Firenze poi valicai l’Appennino tosco-romagnolo passando per il Mugello. A metà pomeriggio feci tappa a Brisighella, grazioso borgo di bassa collina, per vedere il paese e far qualche foto prima di scendere a Faenza al monastero. Brisighella ha tre colli sopra il centro urbano, uno con un santuario, uno con una rocca medievale, uno con una torre con orologio. Mentre giravo intorno alla rocca con la mia macchina fotografica incontrai un tizio sceso da una moto targata Prato che faceva la stessa cosa; breve saluto e due convenevoli. Andai poi alla torre dell’orologio e lui – turista come me – poco dopo arrivò a fare le stesse mie foto. Riprendemmo il discorso vago e generico però poi mi disse “Tanto certe cose si raccontano meglio agli sconosciuti, quindi le dico che…” e mi raccontò che stava facendo un giro da solo per chiarirsi le idee sulla novità del giorno, che il suo secondo figlio stava aspettando il secondo bambino (il suo quarto nipote in totale) e avevano appena saputo che sarebbe nato down. Angoscia in famiglia, cattolica e credente quindi confidava che non ci si decidesse per l’aborto, però dramma “ce la faremo?” e cose così. Era in giro per una giornata in solitario a chiarirsi le idee. Risposi “Allora, confidenza per confidenza, le dico che sono in giro da solo perché venti giorni fa è morta mia moglie… eccetera….” Riassumo: è venuto anche lui a Faenza a conoscere le suore, siamo stati quasi un’ora a chiacchierare in quattro, io e lui, Piero D. da Prato, al di qua della grata (a maglie molto larghe) del parlatorio e Suore Emanuela e Caterina al di là. Un’ora di serenità (pur con tutte le malinconie e le angosce del caso) e di quasi-allegria inaspettata, un vero piacere per tutti, credo anche per le suore ma certamente per gli animi tristi e incupiti del nonno toscano e del vedovo ligure. Il tutto nato per un caso fortuito, l’esserci incontrati io e Piero nello stesso paese, sotto la stessa rocca, negli stessi pochi minuti.
Abbiamo avuto, le suore e io, lo stesso pensiero: sarà stato un puro caso fortunato, una coincidenza? O ci sarà stato lo zampino di Donatella che è sempre stata bravissima, quando voleva farlo, a collegare le persone, a intrecciare relazioni fra gli uni e gli altri? Caso o Provvidenza, ognuno si scelga la risposta che preferisce… Io mi permetto di citare una grande passione tv di Dona (e anche mia), Leroy Jethro Gibbs di NCIS, che nella sua regola 39 dice ” non esistono le coincidenze”… Se Gibbs ha ragione, non è stato un incontro per caso quello tra me e Piero ma il frutto di una sapiente regia organizzata da una Mente Superiore su proposta di una Pivella dell’Aldilà piena di spirito di iniziativa.
Tra le cose semplici in cui più è evidente la sua assenza ce ne sono alcune “a distanza”, in cui fisicamente sono solo e distante ma “prima” bastavano due righe di sms per ritrovarci… Esempio, pranzare alla Trattoria Nostromo di Rapallo o girare la sera per Orbetello dopo aver intervistato un pescatore del locale Presidio Slow Food e non poterle mandare un sms col menù del pranzo o qualche commento sulla città e sulla gente che ho incontrato. A Orbetello erano i primi giorni di maggio, un mese e mezzo soltanto dopo la sua morte, quella sera a girare per le vie del centro, e anche il mattino dopo a fare il turista sulle strade dell’Argentario, effettivamente il non poterle scrivere o telefonare per raccontarle cosa stavo facendo mi ha pesato parecchio. Di Orbetello ho un ricordo assai meno lieto di tutti gli altri tanti posti che ho visitato per lavoro da solo in questi ultimi quindici anni.
Altra situazione simile, una sera a Genova ho visto in tv un episodio di Law&Order Unità Speciale dove c’era un personaggio che arrivava da un’altra serie di quelle che guardavamo insieme, Criminal Intent, e avrei voluto raccontarlo a Dona “sai, c’è la collega del detective Goren che collabora con Olivia Benson”… ma non ho chiamato a Sanremo per raccontarlo, Polvere e Paprika non erano certamente interessati alla faccenda.
Sulle prime non sapevo se vedere qualche telefilm poliziesco da solo, l’idea di seguire le vicende di Bones o di Gibbs da solo mi rattristava; oramai invece un po’ li guardo e la cosa mi fa tenerezza e anzi ho scoperto delle serie nuove, tipo Lie to me, che quando erano iniziate dicevamo “questa no” per non sovraccaricarci. Però non sono ancora pronto, credo, per i “classici” che arrivano dalla Donatella dei nostri primi tempi, il tenente Colombo, la signora Fletcher, Maigret…. Un’altra novità è la serie neozelandese I misteri di Brokenwood: una notte ho sognato che eravamo nella cucina di Sanremo e lei mi ha chiesto quando e come avessi conosciuto questo nuovo poliziesco e io le ho risposto: “quando tu eri in ospedale”. Perché nel sogno era perfettamente guarita e sana e tornata a casa.
Gaber cantava “le piccole sapienze che ogni trapasso lascia e poi non resta niente”; in realtà qualcosa resta: personalmente spero di aver imparato a fare un po’ di marmellata e un po’ di limoncello. Oltre ad aver accresciuto la mia cultura sulle piante da fiore.
Si, ringrazio Dona per avermi fatto acquisire una cultura sui fiori; sugli alberi sono autodidatta ma i fiori li ho imparati da lei, anche se non ho ancora una cultura veramente enciclopedica però è merito suo se ora riesco a dire qualcosa di sensato in merito a plumbago, agapanti, aquilegie e dature. Tra le sue amatissime piante del giardino alcune sembra abbiano sofferto la sua scomparsa: non le rose e le aquilegie che questa primavera son fiorite tutte bene, ma le dature sembrano moribonde e addirittura la mimosa, l’albero che lei amava in assoluto più di ogni altro, pochi giorni dopo il suo ricovero è stata quasi sradicata da un colpo di vento. Quando sono andato a Sanremo per la prima volta durante il suo ricovero sono rimasto allibito nel vedere ‘st’albero tutto sghimbescio, accasciato sulla recinzione. So che è una cretinata, ma io quello sfacelo accaduto alla mimosa l’ho preso come un cattivo presagio. L’albero è stato più fortunato della sua mamma, è ancora vivo, però è abbastanza malconcio poveretto.
C’è la “gardenia della mamma”… in giardino c’è una pianta di gardenia, vecchia di non so quanti anni, e lei diceva che quando fioriva era perché sua mamma (morta nel 1998) voleva farle sapere che era contenta per qualcosa, per qualche avvenimento. Quest’anno non ha ancora fiorito. Chissà se ci sarà anche un “fiore di Dona”, che mi faccia sapere che lei è contenta per qualcosa che farò o che mi accadrà…
In casa a Sanremo, e anche un po’ a Genova, ci sono parecchie foto dei suoi anni di gioventù, con suo padre e sua madre e i loro numerosi cani e gatti. Per quel che ho appreso ascoltando lei e i suoi amici e parenti, Donatella fu una bambina e una ragazza fondamentalmente felice, con una bella famiglia e tanti amici e amori. Poi dalla morte di suo padre (nel 1982, cancro, lui aveva 58 anni e Donatella 22) in avanti i problemi pratici ed emotivi per lei non sono mancati e anzi direi che sono stati anche più di quanti uno avrebbe il diritto di aspettarsi dalla vita. Nel mio piccolo, con tutte le mie imperfezioni, spero in questi quindici anni di averla aiutata a ridiventare ragionevolmente serena e soddisfatta di sé (anche se credo che nessun tipo di “felicità” dell’età adulta possa essere paragonabile alla “felicità” dell’infanzia e della gioventù, per nessuno); spero che anche grazie a me abbia apprezzato i suoi anni di quaranta-cinquantenne, pur con gli alti e i bassi di ogni vita di coppia, che inevitabilmente ci sono stati e c’erano.
Chissà se i problemi vissuti negli ultimi due anni hanno contribuito a indebolirla nel corpo e nello spirito e a renderla più vulnerabile… tra maggio e novembre 2014 erano morte per età l’affascinante ma complicata zia Meletta (quella 93enne dei 18 gatti) e per infarto l’amatissima gatta Sparisci, nel ’15 si era ammalata ed era morta mia mamma, poi c’era stato il passaggio non facile e emotivamente stressante del lavoro dalla Provincia alla Regione, con il dispiacere per i colleghi-amici precari che hanno perso o quasi perso il lavoro, e le numerose palme del giardino morte per il punteruolo rosso… Non sono stati mesi facili per Donatella, bisogna ammetterlo. Il suo carattere eccessivamente emotivo l’ha portata a esasperare le tensioni e le preoccupazioni ma ragioni oggettive di preoccupazione e disagio ne ha avute.
Ho la sensazione che ci siano almeno tre fasi da attraversare nel modo di vivere la vita quotidiana “dopo”: nella prima fase si cerca di fare le cose normali senza pensarci troppo su; nella seconda fase – più difficile – accade che per piccoli indizi o situazioni ci pensi su e ti rendi conto che lei davvero non c’è; la terza fase è quella in cui – più razionalmente – prendi coscienza chiaramente e definitivamente non solo che Donatella non c’è ma anche che non è come quando era andata una settimana in Guinea Bissau, che non c’era e non telefonava ma poi si sapeva che sarebbe tornata: Donatella non ci sarà MAI PIU’. Mi rendo conto che non sono ancora giunto pienamente a questa terza fase: è un entrarci dentro a spizzichi e bocconi, per brevi flash di consapevolezza; è un lavoro piuttosto difficile. Perché non è un “mai più” paragonabile a quello di mia madre e mio padre. Anche mia mamma da quando è morta nove mesi fa non c’è “mai più” ma quello era un evento che presto o tardi ci aspettavamo, lei per prima, e di ciò ne aveva parlato un mucchio di volte, anche quando era sana e autonoma e guidava la macchina, anche ben prima dei suoi ultimi tre mesi malati, perché a 88 anni di età credo che solo un grande sciocco possa non pensare alla propria fine che si avvicina. Ma a 56 anni è inevitabilmente tutto molto diverso.
La cosa che continua a sembrarmi più “assurda” è che Dona non ci sia più in casa sua… L’appartamento al piano terra di Villa Mergellina a Sanremo è al 100% “casadiDona”, potrei dire che è la più evidente epifania di Donatella, e allora perché lei non è lì? Probabilmente quando morì suo padre, più repentinamente di quanto è morta lei, sua mamma e lei pensarono le stesse cose…
Nel mondo in cui vivo c’è un folto numero di adulti, sia sposati sia no, che non hanno figli e discendenti diretti; ogni tanto mi capita di pensare a tutto il patrimonio materiale e culturale di queste persone che rischia di andare disperso. Io almeno ho due nipoti, i figli di mia sorella, ma c’è chi è anche più scarso di me. Da un punto di vista storico generale ciò non è un vero problema, gli oggetti, le cose, i pensieri, le conoscenze, i beni, le idee – alcuni scompaiono ma la maggior parte prosegue la loro esistenza attraverso il tempo saltabeccando di mano in mano, di testa in testa, di proprietario in proprietario, da Tizio a Caio infischiandosene dei legami di sangue, del DNA eccetera. Però nel momento in cui mi trovo tra le mani un oggetto, un libro, un vestito, un quadro, un ninnolo, una fotografia, che è appartenuta a Donatella e prima di lei ai suoi genitori, mi pare inevitabile pormi la domanda “e di questa cosa che ne faccio?” “e se non trovo per questa cosa un nuovo utilizzatore, un nuovo possessore sensato, finché io sono vivo me la posso o voglio tenere ma dopo di me cosa ne sarà di essa?” Donatella ha abbandonato tutto troppo in fretta, cercherò di interpretare in memoriam il suo pensiero nel modo più corretto possibile per disporre delle sue cose nel modo migliore, ovvero per farne ciò che lei avrebbe desiderato che venisse fatto.
I pensieri angoscianti del “noncepiù” portano anche a una perdita di importanza per certe piccole ma importanti attività che in questi anni si sono date per scontate e indispensabili: andare a prendere l’acqua di Cantarana, ad esempio, attività così donatellesca che io comunque continuo a fare quando vado a Ormea ma bevendo io molta meno acqua di lei, la sosta alla fontana sulla statale mi è diventata assai meno frequente; per non dire dell’andare a prendere la verdura all’Isola Scura dalla famiglia Botte: immagino che quest’estate ci andrò qualche volta quando passerò da Ormea ma lei era una divoratrice di verdura, io molto meno… vedremo.
Mi si dice che sono bravo perché “resisto”. Si, resisto. Sarà per via del mio carattere portato più alla razionalità che all’emotività, ma cerco di essere lucido e darmi da fare. Non credo che lasciarsi andare alla disperazione renda un buon servigio né ai morti né ai vivi: se mi deprimessi Donatella non tornerebbe certo in vita né credo che migliorerebbe la sua esistenza attuale, qualunque essa sia. Semplicemente peggiorerebbe la mia. Vivendo più lucido che posso e godendomi qualche dettaglio della mia nuova vita non penso proprio di far torto a Dona e alla sua memoria. Però permettetemi di citare Bob Dylan: “When you asked me how I was doing, was that some kind of joke?”, poeticamente tradotto da De Andrè: “Ma non essere ridicola, non chiedermi “come stai”.
Nobody knows where you are, how near or how far… così cantavano i Pink Floyd. Io mi chiedo, dov’è Donatella adesso? È un’anima cosciente e interagente ancora legata a questo mondo sublunare, un’anima che gira intorno a noi, sorveglia la casa e i gatti, mi aiuta a trovare parcheggio alla sera… O è in uno dei cieli dell’Empireo a cantare le lodi a Dio insieme a Beatrice e ai Santi incontrati da Dante? O è entrata nel Nulla Divino di Meister Eckhart, o è pronta per reincarnarsi in un nuovo essere vivente (umano, animale o vegetale poco importa, sono convinto che agli occhi di Dio siamo tutti sue creature amatissime)? O è scomparsa definitivamente nel nulla materiale e spirituale tanto caro agli atei? Bah, quel che per tutti è e sarà lo scopriremo solo morendo, parafrasando Mogol e Battisti. Peraltro, secondo me, Dio può esistere (Dio esiste!) anche se l’anima personale umana scompare e si disfa, anche se dopo la morte non dovesse esserci una ultravita cosciente per noi esseri umani, così come si ritiene che non esista per i gatti e le mimose. Tutti uguali di fronte alla vita e alla morte, ogni vita uguale davanti al Destino… Mi incuriosisce il fatto che il Cristianesimo delle origini non parlasse tanto di immortalità dell’anima quanto di resurrezione della carne, che mi pare cosa ben diversa… Da approfondire. Però nemmeno padre Giancarlo Bruni quel giorno a Taggia mi pare sia riuscito a dare una spiegazione del tutto chiara e convincente su ‘sta resurrezione della carne. Ma forse sono io che c’ho capito poco…
A proposito del trovare parcheggio, ho parlato di ciò perché Dona è sempre stata un’eccezionale portafortuna per questa cosa, avere lei in macchina garantiva il trovar posteggio anche nelle situazioni più intricate, e non ho mai capito perché… Breve aneddoto: la mattina di Pasqua, vedovo da dieci giorni, sono andato con Loredana (la “Ziagatta” che accudisce i gatti quando non sono a Sanremo, tanto per spiegare chi è in modo molto superficiale a chi non la conosce) a Dolceacqua dove c’era un simpatico mercatino agroalimentare per le vie del paese. Abbiamo girato per un quarto d’ora invano cercando un posto per la macchina nei parcheggi strapieni e iniziavamo a temere di dovercene andare sconfitti. Poi tra me e me (senza dirlo a Lori) ho pensato “Dona, se esisti ancora, dovunque tu sia, se ancora esisti dimostramelo: facci trovare un parcheggio!” Giuro sulla testa di Polvere e Paprika e Popoff e Macchia e Fred che dopo nemmeno un minuto abbiamo visto un’auto che se ne andava e ci siamo sistemati nel posto lasciato libero. Grazie Dona!
A volte vorrei tornare a quei giorni d’ospedale a San Martino, quelli delle notti sulla branda, a suonare il cicalino per avvisare gli infermieri che dovevano cambiare le flebo, a tenerle la mano quando quello era ormai l’unico mezzo di comunicazione rimasto… era tutto una sfiga ma era ancora viva… a modo loro quelle giornate e notti sono state “affascinanti”…
Graziegraziegrazie di cuorissimo a tutti quelli che hanno partecipato all’assistenza di Donatella all’ospedale San Martino e grazie anche a quelli che non hanno partecipato perché avrebbero voluto ma non glielo abbiamo permesso per non far troppa folla. Uno degli ultimi giorni ospedalieri i giovani medici che la seguivano mi hanno ringraziato per quello che parenti e amici stavamo facendo per assisterla giorno e notte. Io ho ringraziato loro per quello che facevano loro ma poi ho pensato che se si erano sentiti in dovere di dirmi/dirci grazie forse era perché in qualche altra camera del panoramico e luminoso undicesimo piano del Monoblocco c’erano altri malati/moribondi come Dona che invece trascorrevano le loro forse ultime giornate da soli. De Andrè canta “cari fratelli dell’altra sponda, cantammo in coro giù sulla terra, amammo in cento l’identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra… questo ricordo non vi consoli, quando si muore, si muore soli”. Credo abbia ragione, quando si muore si è soli comunque e ovunque. Ma forse ci sono gradi e modi diversi di solitudine. Probabilmente tra chi muore negli ospedali, Dona è stata una delle meno sole. Grazie.
Malinconico, cenare a Sanremo da solo coi gatti guardando un poliziesco in tv, ma ogni tanto lo faccio e voglio farlo perché anche la malinconia fa parte di questa fase della vita ed è giusto che sia così.
Ci sono posti dove avevamo detto che ci saremmo andati insieme, dopo esserci stati “prima” ciascuno per i fatti suoi, come Praga e la Corsica, e non ci siamo mai andati… si doveva tornare a Parigi mannaggia, e scendere a fare il bagno nel laghetto di Valle Tufo, ne abbiamo parlato quante volte e mai ci siamo andati davvero… Bisognerebbe imparare a non lasciar passare troppo tempo tra il dire e il fare, che del diman veramente non v’è certezza. Lorenzo de’Medici che diceva queste cose sagge è morto a 43 anni, aveva proprio ragione a non aver certezza del domani…
Dolce topino garfagnino… lo leggemmo sul muro di una casa della Garfagnana tornando dalla vacanza nelle Marche nel 2000, non ancora sposati. Da allora capitava spesso di chiamarci “Topino” o “Topina” spesso francesizzato in “Topin” (pronuncia Topèn). Io ho sempre continuato a chiamarla così, invece per lei col tempo ero tornato ad essere quasi sempre Gianni. Quando mi chiamava Topinooo o “amore” capivo che stava per arrivare una richiesta noiosa o impegnativa.
In questi quattordici anni molti mi hanno detto: “fortunato tu che fai il marito part-time, tre giorni e mezzo alla settimana soltanto, così evitate di stufarvi l’uno dell’altra”. In effetti io amo parecchio la solitudine, ho bisogno di essa di tanto in tanto, e inoltre Donatella per carattere era portata a “essere presente” e a “comandare” anche troppo in molte cose che faceva e con tutti coloro che aveva intorno (amicus Plato sed magis amica veritas: Dona non era mica perfetta, eh? A volte scherzando dicevamo che mi aveva sposato per avere un maggiordomo); quindi si, sinceramente son convinto che la doppia vita sanremese-genovese sia stata una bella idea. Per entrambi, credo, perché anche se lei ogni tanto si lamentava del fatto che la lasciassi sola per metà settimana ho sempre pensato che si sarebbe stufata di avermi a casa tutti i giorni, 7 su 7, 30 su 30, 365 su 365. Sai che noia avere sempre fra i piedi un marito che lava, asciuga e ripone le forchette e i pentolini mentre tu che stai cucinando ne hai ancora bisogno…
Finora l’ho sognata tre volte: il primo era un sogno breve e angosciante, eravamo separati, e lei aveva iniziato una sua nuova vita, io ero escluso da tutto, casa giardino e gatti compresi; quando mi sono svegliato e ho compreso come stavano veramente le cose confesso che mi sono sentito sollevato, lei non c’era più ma il “nostro mondo” almeno quello si, c’era ancora per me. Secondo sogno, quello del telefilm neozelandese di cui ho scritto prima, lei era a casa guarita dopo l’ospedale. Terzo sogno di pochi giorni fa, Donatella si risposava: era un secondo matrimonio dopo il nostro, ed eravamo tutti allegri e contenti per questo fatto: siamo arrivati alla chiesa insieme lei e io, nel senso che ero proprio io che la accompagnavo lì. Unico suo problema ancora irrisolto era il vestito, ché quello del nostro matrimonio era (nel sogno come nella realtà) nella casa di Genova e lei non aveva ancora ben deciso cosa indossare per l’evento. Non è chiaro che chiesa fosse, comunque certamente a Sanremo, e non era presente nessun marito. Con chi si andava a sposare? Boh? Comunque era un evento lieto, allegro, sereno, per tutti. Volendo misticheggiare, ciò potrebbe essere un modo per farmi/ci sapere che sta bene, che è contenta dov’è ora e che dobbiamo esserlo anche io e tutti, e che il suo nuovo “marito” è una brava persona…. La zia Meletta avrebbe forse detto che questo “marito” è Gesù, o qualcosa di simile. Pensando invece che i sogni siano soltanto (soltanto?) elucubrazioni della mente del sognatore, potrebbe significare – come intelligentemente suggerisce l’amica Anna medica omeopata – che qualcosa si sta sbloccando dentro di me e inizio ad accettare la nuova realtà sua e mia. Probabile.
Ho sempre apprezzato la libertà di gestirmi autonomamente giorno per giorno (ad esempio il non avere, nel bene e nel male, mai avuto un cartellino da timbrare sul lavoro) e di poter andar qui andar là senza dover render conto a nessuno. Ora che questa libertà ce l’ho davvero totale non so bene che farmene e non mi pare poi così divertente… Ovvio no?
Ad esempio le gite sui monti di Genova alla domenica con gli amici genovesi: ammetto che mi mancavano, erano quindici anni che non ne facevo, e sono un piacevole ritorno, anche se quando penso al perché adesso mi sono di nuovo possibili mi rattristo nel momento stesso in cui mi godo questo piacere, tutto insieme.
Ora si tratta per me di inventarmi una nuova fase della vita: le grandi fasi precedenti sono state la scuola, gli scout, l’università+lavoro universitario, il lavoro come “scrittore” (ancora in corso per fortuna), il matrimonio… Vedremo ora il Caso o la Provvidenza cosa mi avranno destinato per il futuro. Sarà un futuro lungo? breve? E chi lo sa?
Per ora mi pare che la mia vita sia diventata ancor più “schizofrenica” di com’era prima: già prima esistevano due Gianni, uno a Genova e uno a Sanremo, ma prima c’era Donatella a fare da trait-d’union fra i due, ora ci sono un po’ di messaggi e telefonate intrecciate – soprattutto con mia sorella genovese e con le colonne portanti della mia attuale vita sanremese Teresa e Loredana – ma in generale i miei due mezzi-mondi sono totalmente separati fra loro. La cosa non mi sembra né bella né brutta, né giusta né sbagliata, però un poco strana si.
La comunità sanremese con le sue diramazioni imperiesi, biellesi, milanesi, monzesi… mi ha accolto in questi quindici anni benissimo e ne sono felice e li ringrazio e ricambio pienamente l’affetto che dimostrano per me. Forse non riuscirò a essere così assiduo nel mantenere i contatti con tutti come faceva lei, un po’ perché sono più solitario e ombroso di carattere, un po’ perché ho comunque una comunità genovese che naturalmente continuo a frequentare e si sa, i giorni rimangono sette alla settimana, 24 ore ciascuno, mica aumentano in funzione della quantità di amici e conoscenti che si hanno…
Quanti oggetti e quante cose hanno una loro storia fortemente legata a una persona particolare, e quando questa scompare essi perdono improvvisamente di senso e di significato, diventano oggetti incomprensibili, non si riesce più a comprendere ciò sono e ciò che dicono…. Nella casa di Sanremo ne sto trovando parecchie di cose così, a partire da molti vestiti (quasi tutti già donati a chi può averne bisogno, ché tenerli a impolverarsi negli armadi non servirebbe né a loro né a nessun altro) passando per diversi oggetti di cucina (Dona cucinava quotidianamente con passione e frequentemente per cene conviviali, io invece…) e arrivando a decine di videocassette e dvd di serie televisive antiche e recenti che non credo proprio che mai guarderò ancora. Boh, mai dire mai… Però ora, a parte la gelatiera passata a Loredana che la usa doverosamente, tutte ‘ste cose “inutili” restano dove sono, avrò tempo per pensare al loro destino.
L’albero di Natale stracarico di palline decorazioni luci…. Dovrò pensare se farlo anche il prossimo dicembre. Le cene sulla tavola della sala tutta bella apparecchiata…se ne faranno ancora? Ora no, ma magari in futuro… basta che non facciate cucinare me…
Bizzarro che tocchi a un anonimo Dall’Aglio venuto da Genova, da Voltaggio e da Ormea, dover custodire questa casa così profondamente Marsaglia, così intrisa di Marsaglità sanremasca. Ma se così dev’essere, così sia e così sarà.
Quattro gatti su cinque mi pare che si siano abituati al nuovo ménage familiare: alcuni giorni da soli con Loredana che dà loro la colazione e la cena e un po’ di coccole quando c’è e li tiene fuori di casa tutto il giorno, e gli altri giorni in cui ci sono io che li faccio entrare e uscire più o meno come vogliono e Polvere e Paprika, che di notte stanno sempre in casa, condividono con me il letto se lo desiderano.
Polvere è il più “cane” dei cinque gatti, lui soffre visibilmente questo sistema, lui ha veramente bisogno di affetto e di coccole, di contatto fisico, è spesso malinconico e lamentoso, sono convinto che a lui Donatella manchi davvero. In marzo e aprile quando ero a Sanremo mi dormiva addosso sul cuscino, ma proprio addosso, attaccato alla testa come fosse un cappello. Un cappello che pesa dieci chili, inamovibile e caldo. Ora si è abituato all’andazzo e dorme altrove – forse anche perché fa caldo – con mia soddisfazione, anche se magari alle sei del mattino miagola perché vuole essere accarezzato e abbracciato.
Dona era una delle persone meno banali che io abbia mai conosciuto. Magari è anche per questo che poi sono finito a diventar mezzo sanremese. Non che tutto fosse “belloebuono” in questa sua non-banalità, figuriamoci, ma che fosse abbastanza “più unica che rara” credo che si possa dire tranquillamente.
Da un messaggio Whatsapp della sua collega di lavoro Tiziana datato 3 aprile: “Resto fermamente convinta che le persone vanno via ma il loro spirito e la loro energia rimane tra noi. Questa mattina sorpresa. Mi avevate comprato un’aquilegia che ho piantato in un angolo del giardino distante da casa. E guarda in un vaso che tutte le mattine scontro per uscire cosa è sbocciato? [e qui mi arriva la foto di un’aquilegia nata spontaneamente in un vaso che contiene un’altra pianta] Mi sono commossa ma Donatella è energia e lo dimostra!”
Divagazione poetico-musicale: “Il problema non è che tu sia o non ci sia: il problema è la mia vita quando non sarà più la mia, confusa in un abbraccio senza fine, persa nella luce tua sublime… Lasciami questo sogno disperato di esser uomo, lasciami quest’orgoglio smisurato di esser solo un uomo”. Roberto Vecchioni che parla con Dio nella canzone “La stazione di Zima”.
Nella fase intermedia del suo mese e mezzo d’ospedale Dona diceva spesso “fatemi andare”. Con mia cugina Maria Grazia abbiamo pensato – entrambi e indipendentemente – che questa sua richiesta poteva avere due interpretazioni: la lectio facilior era “fatemi uscire dall’ospedale e tornare a casa” ma ci poteva essere anche una lectio difficilior “lasciatemi andare alla mia nuova vita perché questa fase terrena l’ho conclusa”. Bah, sono solo seghe mentali…
Aveva detto spesso, l’ultima volta a Natale parlando con Sandra, mia sorella: “non voglio organizzare altri funerali” nel senso che ne aveva già organizzati troppi dei suoi parenti, a partire da quello di suo padre 34 anni fa, e avrebbe voluto morire prima di me per non doversi occupare anche, in futuro, del funerale di suo marito. Io la sfottevo, le dicevo che quando una donna firma i documenti al termine della cerimonia del matrimonio, firma anche l’accettazione di diventar vedova, visto che in ogni nazione del mondo, le ricche come le povere, le donne vivono – in generale – più a lungo degli uomini. Bell’ironia del cavolo…
Sinceramente, più che per me, mi dispiace per lei, perché anche nella migliore delle ipotesi – che ora stia meglio, in una forma di esistenza sublime e paradisiaca – se questa esistenza sublime e paradisiaca è eterna, se fosse iniziata fra 10-20-30-40 anni sarebbe poi stata eterna allo stesso modo, e allora che fretta c’era di incominciarla? Così si è persa 10-20-30-40 anni di vita terrena che avrebbe potuto essere forse ancora decente, piacevole…
In fondo trovo ingiusto quello che è successo. Ma “ingiusto” non è un termine pertinente: se c’è un senso – un Senso – in ciò che accade nel mondo, non importa che io non capisca quale sia: se il Senso c’è, esso stesso rende “giusto” ogni accadimento. Se invece tutto succede per caso, la morte di Donatella è stata una sfiga ma di sfortune così o anche peggiori ne è pieno il mondo e l’unica cosa sensata è prenderne atto e darsi da fare per proseguire.
Peraltro questa faccenda mi ha reso ancora più sensibile al tema della morte. Credo di averci sempre pensato senza troppa paura o angoscia, d’altronde non si potrebbe vivere se altri prima di noi non fossero morti per lasciar spazio a noi, la morte è un elemento essenziale della vita e mi pare sciocco far finta che non sia così. Ma ora mi chiedo ad esempio anche “perché lei e non io?” Perché per lei 56 anni e mezzo sono stati sufficienti e io sono ancora qui? In tutta sincerità non avrei nessuna voglia di far cambio con lei, però perché è successo così? Ho meriti particolari rispetto a lei? Ho un “compito da svolgere” che non ho ancora concluso mentre lei il suo lo aveva portato a compimento? Forse è così… O più semplicemente è tutto un giuoco del destino, notoriamente cinico e baro? Domande inutili, lo so, ma come si fa a non porsele, pur senza sperare di avere una risposta… Il senso di colpa del sopravvissuto, diceva la sullodata amica Anna omeopata e buddista.
Qualcuno scrisse, molto tempo fa, che non moriremo finché ci sarà qualcuno che si ricorderà di noi. Come dissi al funerale, sono convinto che in questo senso la vita terrena di Donatella sarà eccezionalmente lunga e longeva.
Comunque in questa sua nuova fase di esistenza, confidando che esista davvero, mi immagino e spero che quando è arrivata “lassù” sia stata accolta da una folla di gente… sua nonna, suo papà – l’unico uomo che sia mai riuscito a tenerle testa, mi disse sorridendo un giorno alcuni anni fa – sua mamma, quei suoi amici che l’hanno preceduta prematuramente come Rosita e il Bobi e Giuseppe, i numerosi cani da Goffredo alla Lara, i vari gatti da Bimbo a Musetto a Codamozza a Sparisci, tutti a dirle “benvenuta tra noi” e anche “non ti preoccupare per il giardino e per Polvere, Paprika e gli altri mici, giù c’è Gianni che ci pensa e vuol bene a tutti, piante e gatti (e merli, e lumache, e…) e con la collaborazione di Loredana li terranno benissimo…
E comunque sia andata fin’ora, in qualunque modo andrà d’ora in poi, ha ragione il grande Faber: “Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”.
(Scritto il 12 luglio 2016)