“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’é uno, é quello che é già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi vi sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo é più rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”
E con queste allegre parole rivolte da Marco Polo a Kublai Khan termina Le città invisibili del mai abbastanza lodato Italo Calvino. Che è uno dei dieci libri che porterei con me se dovessi salvarmi dal diluvio universale, o fare naufragio su un’isola deserta o qualsivoglia altra sfiga.
No, é che quando cala il tramonto in una giornata mezza nuvolosa, dopo aver trafficato su ologrammi e fax e cazzulli vari forse proficuamente ma con la sensazione di non aver concluso niente di concreto, dopo qualche chiacchiera sulla gita ad Alessandria di domenica a sguazzare nel fango fetido postalluvionale, ecco, a volte ci si sente un pò uggiosi e davvero con la sensazione che attorno sia un pò inferno.
L’alluvione soprattutto: portar via fango sporco e mobilia e computer e lattine di birra e lavandini e sedie e tavoli e persino automobili coperti intrisi permeati di fango per circa 7 ore insieme ad altre 115 persone in un edificio col segno dell’acqua sulle pareti delle stanze ad un metro e 80 di altezza porta a pensieri contrastanti: il primo è stato, quasi inconscio, Dio grazie di abitare in un altro posto; il secondo come si fa a far tornare tutto come prima?; il terzo però, che spettacolo doveva essere vedere la piena arrivare; il terzo bis é un altra calvinata “l’universo non antropomorfo, di fronte al quale (e soltanto lì) l’uomo é uomo”; il quarto ma com’è possibile sapere che esiste tutto questo e decidere di non venirci neanche per una fetentissima domenica “perchè bisogna svegliarsi alle 6, é troppo presto”?; il quinto ma quanto è stronza la TV, stronza non in malafede, ma perchè ottunde la capacità di capire le cose: uno vede i servizi ai Tg e crede di aver capito tutto, ma se non ci metti le mani, nel fango, se non ne senti l’odore naftoso per una giornata, ma che hai capito? Beh, non dico niente di originale, lo so. Ma è bene rendersene conto ogni tanto, che la televisione non è la realtà, anche se fa vincere le elezioni.
Però assieme alla parte schifosa, diciamo pure, del tète-a-tète col fango convive il fascino della potenza della natura; non so se sia indice di perversione d’animo o se sia normale, ma pensare a cosa può fare un semplice Tanaro, che non è poi il Nilo, in neanche mezza giornata, insomma, io credo che al di là delle polemiche amministrative, politiche e ideologiche (talvolta francamente irritanti), bisognerebbe andare tutti lungo le rive dei fiumi, non importa quali, inchinarsi e pensare “ancora una volta la Natura ci ha dimostrato che alla facciaccia della nostra prosopopea umana, in generale, ed occidentale in particolare, il momento in cui l’uomo dominerà veramente la terra è lontano ma così lontano che forse non verrà mai. Ed è bene che sia così. Poi invece ci si perde in polemiche sui governi vecchi e nuovo, e i prefetti, ed i fax, e il degrado del territorio, e tutte cose sacrosante ma l’idea che la natura è anche, e molto, violenta, e la morte fa parte della vita sempre e comunque, anche e spesso la morte violenta, improvvisa, “ingiusta” per quello che sta parola significa, che insomma anche senza essere inferno qui non è certamente un paradiso e non lo sarà mai, ricordiamocelo, ogni tanto.
Sono comunque abbastanza convinto che un’ampia fetta di responsabilità di questo disastro ricada sul modo caciarone e vago di amministrare il territorio tipico di noi italiani. Di sfruttarlo senza rispetto e senza amarlo veramente. E che ha ragione Michele Serra che dice su Cuore che il vero crimine è di noi gente di adesso che dilapidiamo il patrimonio secolare dei nostri padri contadini che hanno per decine di generazioni vissuto e convissuto con la natura accudendola e coltivandola.
Brutti pensieri, eh? Però mi hanno fatto venire in mente l’inferno di Calvino: vivi un alluvione che ti porta via il lavoro di una vita, e pensi all’inferno. Lavori per una giornata di pala e scopa e idrante col fango fin sugli occhiali e senti l’inferno, ne vedi il colore, ne respiri l’odore. E lo sconosciuto obiettore che alle 3 ti porta il caffè da bere facendo attenzione a non sporcare il bicchiere coi guanti zozzi fa un pò meno inferno, ed il militare con la pancetta e lo sbuffo sudato che viene a spingere via le auto melmose pure. E la signora cui Michela ed altre hanno pulito il negozio che piangeva e voleva pagarle per il lavoro fatto forse non ha letto Le Città Invisibili ma ha comunque vissuto sulla sua pelle il “riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Sto diventando retorico, basta. Basta, torno a produrre. Produrre cosa? Ma se domenica qualcuno torna su, ci torno anch’io? Vediamo.
(Scritto il 16 novembre 1994)