Ho già detto molte volte e molte ripeterò che l’unico ambiente naturale in cui io riesco a sentirmi felice di vivere è la costa rocciosa del Mediterraneo. Non una qualunque costa marina, ma quella alta e rocciosa del Mare Nostrum: le riviere liguri insomma, e i luoghi a esse simili: Corsica e Sardegna, isole greche e (immagino) dalmate, Catalogna, Costa Azzurra, Penisola Sorrentina…
Ma se i paesaggi rivieraschi mi danno vera gioia di vivere, la più profonda, tranquilla, rilassante, riflessiva serenità dell’anima la trovo nella campagna collinare. Forse è una sensazione atavica, eredità di millenni passati in cui era assai più comodo per i miei (e pure per i vostri) antenati vivere fra dolci colline ubertose piuttosto che sulle scogliere sterili a picco sopra un mare infido e avaro. E i miei antenati, peraltro, sono stati tutti campagnuoli e non marini, nonni e genitori compresi.
Fatto sta che le occasioni di trascorrere qualche giorno nella campagna ondulata senza vistamare sono sempre benvenute. A metà dello scorso luglio, nel countryside del sud-est dell’Inghilterra, fra il Kent e il Sussex.
Una settimana in giro fra gardens, parks, manors, forests, lakes, seguendo un itinerario anticipatamente studiato con attenzione e passione da Donatella e realizzato anche insieme a Emy S. e Anna S., squisite compagne di viaggio e di frenesia fotografica.
Per pernottare, la gradita ospitalità di due ladies di diversa rusticità in due b&b campagnoli (Tannerfarm House e Curtis Farm) forniti di letti soffici (di cui uno col baldacchino) e pantagrueliche english breakfasts; ma inglesamente privi di bidet e di miscelatori nei rubinetti, Dio solo sa perché gli inglesi aborrano questi due utilissimi accessori da toilette.
Intorno ai b&b muggivano friendly cows, abbaiavano cani, pascolavano enormi cavalli da aratro grandi come megateri pliocenici, razzolavano galline surrealiste con le penne bianche orlate di nero disegnate da Picasso. Nei prati saltellavano conigli curiosi e fuggitivi dal sederino bianco che mi ricordavano tanto Moscardo-Ra e i suoi amici della Collina dei Conigli che lessi con enorme piacere 20 anni fa.
Per spostarsi, un auto presa a nolo in aeroporto e l’amenità della guida a sinistra; “rotonda!” fu il grido di guerra e il leit-motiv del nostro viaggio, in cui – distanti dai timori terroristici londinesi che facevano capolino da titoli dei giornali – l’unico pericolo che correvamo era quello di scontrarci con le auto che giravano nei round-abouts in senso opposto al nostro, arrivando da destra e non da sinistra come s’usa qui in Continente.
Poi miglia e miglia di long and winding roads che tortuosavano a saliscendi fra boschi, campi coltivati, pascoli con pecore e mucche, siepi, villaggi di case a graticcio (Goudhurst, Headcorn, Biddenden…) e città di edifici in mattoni rossi e portici fioriti (Rye, Tonbridge, Royal Tumbridge Wells…), austere chiese in pietra circondate da piccoli cimiteri con croci celtiche e lapidi muschiose, venditori stradali di ottime strawberries and cherries.
Poi pubs colorati di fiori dove puoi far due chiacchiere col solitario e gioviale bevitore di ale del tavolo accanto in attesa della cena (in orari da merenda sinoira più che da vera cena ma – quasi saltando il pranzo – la pur abbondante colazione non bastava e alle 17,30 – 18,00 spesso già cercavamo inns e pubs dove riempire lo stomaco).
Infine gli onnipresenti “oasts”, gruppi di curiosi edifici alti e puntuti sormontati da conici camini bianchi da cui spuntano grosse aste in legno simili alle barre dei timoni, che li fanno sembrare enormi pinguini col naso a Pinocchio o altissimi monaci ciondolanti e un po’ adunchi. Abbiamo appreso che sono (erano) gli essicatoi per il luppolo, bizzarri edifici per noi italiani vinaioli ma indispensabili per un popolo che beve “ale” e “lager”, così come i seccatoi delle castagne sono stati indispensabili per secoli per i contadini dell’Appennino.
Un tempo delizioso, forse quasi troppo caldo ma secco, asciutto, assolato, totalmente privo di English rain, ottimo per turisteggiare anche se le landladies dei b&b si lamentavano del troppo secco e rivolgevano preci ad petendam pluviam.
E soprattutto i parchi. I giardini, i castelli dapprima sassoni e normanni poi della Corona e ora del National Trust, i laghi piccoli come stagni o immensi come fiumi amazzonici, i prati ben rasati e quelli di erbe incolte, i pavoni ciarlieri, gli eleganti cigni neri con le sottoali bianche, le ombrose panchine di legno, i labirinti di siepi di tasso, i quadri di Henry VIII, le stanze di Anna Bolena, la casa di Winston Churchill…..
Posso fare l’elenco dei luoghi visitati (Goombridge Gardens & Forest, Pashley Manor, Great Dixter, Penshurst Place, Hever Castle, Sissinghurst Garden, Scotney Castle, Nyman’s Garden, Wakehurst Place, Sheffield Park, Leeds Castle, Chartwell) ma non è il caso di descriverli uno a uno, anche se i giardinieri e gli architetti del paesaggio che mantengono vive quelle meraviglie se lo meriterebbero…
Tutti elegantemente ascribivili alla categoria “residenze di gentiluomini di campagna”, tutti perfetti modelli dei paesaggi dipinti dai vedutisti del secoli scorsi, John Constable & friends. Ma ognuno diverso dall’altro in qualcosa, ognuno con la propria individualità: Sissinghurst è IL giardino, creatura naturale e intellettuale al contempo voluta e amata da Vita Sackville-West, Scotney è l’emblema del Pictoresque style (ignoravo che esistesse ufficialmente uno stile “pittoresco” nell’architettura del paesaggio), Nyman’s e Great Dixter sono il trionfo della policromia floreale, Leeds è IL castello con fossato e ponte levatoio….
In questa settimana ho capito, credo di avere capito, quale sia stato per secoli il fascino della vita del Gentleman inglese di campagna. Chi vive in una regione sassuta e ispida come la Liguria ha solo il mare per sfuggire dalle miserie della quotidianità ed è giusto e logico che a Genova la classe nobiliare si sia sviluppata e abbia tratto la sua ragion d’essere dalla navigazione e dal commercio marino. In Inghilterra c’è molto mare certo, ma con quella stupenda campagna addomesticata e pur così apparentemente naturale che possiedono è ovvio che l’essere nobili si sia identificato con il possesso della terra. Come in Francia, del resto, altra nazione di magnifica terra da abitare e possedere (e di clima vivibile, ché anche in Libia e in Finlandia c’è tanta terra ma il clima là è un po’ diverso da quello francese e inglese…)
Le principali delizie dei sensi sono stati certamente i seimila colori e i cinquecento profumi dei fiori. Personalmente ho apprezzato soprattutto il blu intenso dei delphinium e quello più luminoso dei muri ricoperti di clematidi, le policromie delle ortensie e dei phlox (fiori che amo sin da bambino perché ce ne sono da sempre nel giardino della casa di Ormea, rustici e fantasiosi nell’inventare ogni anno nuove tonalità di rosa, di bianco, di rosso, di lilla), i roseti bianchi, le bizzarre forme dei cespugli di bosso tagliati secondo i balzani criteri dell’arte topiaria… I giardini affollatissimi di fiori multicolori e profumati erano la gioia e il solluchero sommo di Donatella, che legge nella bellezza dei fiori la bellezza e la bontà di Dio.
Anche io ho tratto immenso piacere nel riempirmi occhi e macchina fotografica dei colori dei giardini ma ciò che maggiormente ho goduto sono stati gli alberi dei parchi: gli alberi grossi, quelli dal tronco che non lo abbracci tutto, pluriplurisecolari, dalle fronde enormi che non conoscono potature e mutilazioni. Quelli che fanno ombra sul mondo offrendo frescura al viandante che stanco o meditabondo si siede ai loro piedi appoggiando la schiena al loro tronco vetusto e amico.
Perché non c’è ombra come l’ombra dei grandi alberi che sia in grado di dare fresco all’aria e al mondo; l’ombra dei tetti, dei muri è piatta, ferma, asfittica; l’aria si muove nell’ombra degli alberi, la sua frescura è viva, mai statica.
Sdraiarsi all’ombra delle grandi querce, dei tigli, dei faggi sentendo il contatto con la madre terra sotto le gambe e del fratello albero dietro la schiena è un modo (credo uno dei migliori) di pregare, di entrare in contatto, in empatia con la natura e con Dio. Capisco bene perché gli alberi abbiano accompagnato alcuni dei più intensi momenti spirituali della storia dell’umanità: il melo sotto cui Newton scoprì la gravitazione universale, l’albero (non so cosa fosse) sotto cui Gautama Siddharta raggiunse l’illuminazione e divenne il Budda, gli olivi del Getsemani che accompagnarono Gesù verso la Passione (tanto per dire quelli che mi vengono in mente ora).
Ultime considerazioni sparse, poi basta:
1) curioso l’inglese del sud-est, dove dicono todAy, twentyAight e così via…
2) curiosa anche la fonte ferruginosa di Royal Tunbridge Wells (appunto, ci sono i pozzi…), dove simpatiche girls con abiti settecenteschi ti offrono bicchieri di acqua rossiccia e metallica (molto ferruginosa!)
3) molto bello il Museo dei giocattoli old-time nel castello di…. boja, non ricordo in quale castello. Ma è bello lo stesso
4) a Goudhurst siamo andati a messa. Cattolica. Molto cantata, col prete che all’uscita alla fine salutava tutti uno a uno.
5) magnifici i fiori, maestosi gli alberi, ma la pianta più straordinaria è la Gunnera manicata, di origine sudamericana, diffusissima in questi parchi dove vive lungo i canali e i sentieri; si presenta con grossi cespugli di enormi foglie scure e un poco pungenti, è bruttina e sproporzionata e mi chiedo perché piaccia tanto ai giardinieri inglesi che la ficcano dappertutto. A me sembrava un’inutile versione extra-large dei noti foglioni del giardino di Don Andrea…
6) quasi la sensazione di volare (quasi) dondolandosi sulle enormi altalene del bosco di Groombridge appese ad alberi altissimi che ricordavano un po’ le querce reali della foresta di Bialowieza in Polonia. Altalene costruite forse da giganti giocherelloni che popolavano queste terre prima dell’arrivo degli angli, dei sassoni, dei normanni…
7) nel Kent fanno il vino! Pensavo che dopo la fine dei secoli caldi dell’epoca romana e medioevale (quando i vichinghi abitavano la Groenlandia e i benedettini piantavano olivi in Piemonte) la vite non si fosse più coltivata in Inghilterra. Adesso ci riprovano e fanno dei rossi e dei bianchi molto pubblicizzati, anche se a leggere gli articoli dedicati mi pare di capire che siano più vinelli “del contadino” che vini adatti a palati italiani o francesi. Un produttore presenta il suo rosso come “ideale da bere freddo”, il che la dice lunga sulle caratteristiche del medesimo… In fondo avevano ragione Goscinny e Uderzo, che nel loro “Asterix e i Britanni” fanno bere ai britanni “acqua calda, vino rosso freddo e cervogia tiepida”. Avrei voluto acquistarne alcune bottiglie ma sono scomode da portare in aereo.
7bis) però simpatica la pubblicità letta in un minisupermercato: “the best rapper is white, the best golfer is black, the Swiss are the world’s best sailors… time to drink English wine!”