Palomar è, per me, uno dei capolavori di Italo Calvino (gli altri essendo Le Città Invisibili e Ti con Zero); una serie di brevi racconti in cui sotto la rimuginosa figura del signor Palomar c’è Calvino medesimo. Uno dei racconti è “Il fischio del merlo”; ne cito l’incipit: “Il signor Palomar ha questa fortuna: passa l’estate in un posto dove cantano molti uccelli. Mentre siede su una sdraio e“lavora” (infatti ha anche un’altra fortuna: di poter dire che lavora in luoghi e atteggiamenti che si direbbero del più assoluto riposo; o per meglio dire, ha questa condanna, che si sente obbligato a non smettere mai di lavorare, anche sdraiato sotto gli alberi in un mattino d’agosto)”.
Immodestamente, talvolta mi succede di trovarmi in situazioni simili a quella del signor Palomar, situazioni “di vacanza” che diventano anche occasioni “di lavoro” o viceversa momenti “di lavoro” che vivo anche come “vacanza”. Quest’estate ce ne sono state almeno quattro: al Festival di Musica da Camera di Cervo, al Festival Combin en Musique a Ollomont, a Fontanarossa di Gorreto e ai laghetti di Lècchiore. Cervo, Fontanarossa e Lècchiore sono stati momenti di svago in cui, mentre li stavo vivendo, mi è venuto da pensare “lavoriamoci su, scriviamoci un articoletto”; a Ollomont ero andato con l’alibi dello “scrivere un paio di pezzi” main realtà sono stati due giorni di piacevole vacanza (i pezzi comunque li ho scritti davvero, belli o insulsi che fossero).
In realtà quando mi muovo “per lavoro” vivo quelle occasioni anche come momenti di “vacanza”, che si tratti di poche ore a visitare un castello o di due giorni in giro tra musei e prodotti agroalimentari tradizionali. Ma in quei casi parto sapendo bene il perché e il percome. Diverso è quando, come a Cervo o a Fontanarossa, vado lì per puro diletto e soltanto dopo mi viene in mente che potrei sfruttare l’occasione per buttar giù due righe e mandarle – per esempio – alla redazione di Liguria Today. Unire l’utile al dilettevole, si potrebbe dire. Non fosse che per me sia partecipare a eventi e incontrare persone sia scrivere sono cose ugualmente dilettevoli, in cui i confini tra dovere e piacere (mia nonna diceva “prima il dovere poi il piacere”) svaniscono, perdono di significato.
E per trattenere pensieri, sensazioni e impressioni che mi spuntano in mente durante l’evento (sia un concerto o una passeggiata tra castagni secolari) e portarli a casa dove metterò tutto per iscritto, faccio foto e prendo appunti sul telefono, registrando a voce o scrivendo sms; il mio telefono (quasi) come il taccuino nero Moleskine di Bruce Chatwin…
Poi però ascolto i telegiornali, leggo i quotidiani e Rainews… Quant’è lontana Fontanarossa di Gorreto da Kabul? Più lontana di Marte, a prima vista, ma è poi vero? La perdita -definitiva, forse – di quel poco di autorevolezza che USA ed Europa ancora avevano nel mondo, la “nicchia ecologica” lasciata libera per la Cina che ora potrà colonizzare un’altra terra ricca di importanti materie prime come già sta facendo in Africa, mi chiedo, tutto ciò a quale fase della decadenza dell’Impero EuroAmericano corrisponde? Mi viene naturale fare paragoni con la decadenza dell’Impero Romano, come già faceva Alessandro Barbero quindici anni fa col suo libro “Barbari: immigrati, profughi, deportati nell’impero romano”.
Tempo fa, conversando di decadenza dell’Occidente qualcuno mi disse che “per fortuna non c’è ancora stata Adrianopoli”. Intendeva la battaglia tra l’esercito dell’Impero Romano e i Visigoti del 9 agosto 378, terminata con la disfatta dei romani e la morte dell’imperatore d’Oriente, Valente. Fu l’inizio della fase conclusiva di agonia e morte dell’Impero Romano d’Occidente.
Kabul non è Adrianopoli, Biden non è morto nell’ultimo attentato e forse un’Adrianopoli del XXI secolo non ci sarà mai, ma rispetto alle possibili conseguenze internazionali politiche, economiche e psicologiche del casino afgano, i miei trastulli tra concerti e boschetti mi sembrano un bell’esempio della tipica dabbenaggine dei popoli ricchi e decadenti che si avviano al suicidio assistito senza rendersene conto. Con buona pace del signor Palomar. E anche delle donne afgane che in realtà non interessano a nessuno, nemmeno alle elegantissime ministre del G20 riunite pochi giorni fa a Santa Margherita Ligure per ciarlare di quello che in italiano aulico e manzoniano si chiama “empowerment” femminile.