Per ovvie ragioni quest’anno il XXV Convegno Nazionale del FAI non si è tenuto in tre giorni dentro un affollato teatro di una bella città, come negli anni scorsi a Parma, Brescia, Palermo, Torino, ma in webinar. I partecipanti, delegati e volontari di tutt’Italia, si sono collegati, ciascuno da casa sua, sulla piattaforma Zoom per seguire le comunicazioni delle sessioni generali di sabato 20 e sabato 27 marzo e le diverse sessioni a tema che si sono susseguite per una decina di giorni; tutti i relatori a partire dal presidente Andrea Carandini fino al ministro Franceschini e a tutti gli illustri ospiti, sono stati niente di più che “idoli” (nel senso etimologico greco di “èidola”, immagini, simulacri) dentro gli schermi dei pc, tablet, telefoni personali di ognuno.
Il titolo del convegno era “Fondo per l’Ambiente Italiano: per quale ambiente?”. I temi erano da un certo punto di vista prevedibili, riscaldamento globale, consumo di suolo e di acqua, biodiversità, tutela del territorio eccetera, e sono stati trattati con interventi da abbastanza a moltissimo interessanti. Da un punto di vista della qualità dei contenuti è stato sicuramente un successo. E anche dal punto di vista dell’impatto comunicativo, nel senso che non essendoci i limiti di capienza e di organizzazione dei convegni in presenza si è potuto avere un pubblico parecchio più numeroso dei convegni passati. Però….
Però mi chiedo – no, non me lo chiedo perché conosco benissimo la risposta, ma diciamo che come figura retorica funzionale al discorso posso chiedermi: perché non sono “tornato a casa” dopo questo convegno con l’entusiasmo – forse un po’ naif ma forte e chiaro – verso il FAI che mi accompagnava al ritorno dai convegni degli anni scorsi? La risposta è ovvia: perché quest’anno è mancata la componente umana; è mancata l’interazione con gli altri partecipanti durante i giorni di convegno; è mancata tutta la comunicazione non verbale fatta di chiacchiere a margine, battute, sorrisi, foto, pranzi e serate insieme. Ogni anno il convegno aumenta il mio ottimismo verso il mondo perché mi rendo conto che intorno a me nella società italiana ci sono mucchi, iose, migliaia di belle persone che operano per rendere il mondo migliore di come l’hanno trovato; ma questo aspetto “antropologico” dell’essere FAI non si può percepire stando da solo in casa a guardare e ascoltare delle facce sullo schermo del computer. Bellissimo sentir dire da Marco Magnifico che in tutta Italia c’erano millantamille volontari e delegati FAI che contemporaneamente a me stavano guardando e ascoltando i relatori; ma erano millantamille invisibili seduti da soli davanti agli schermi di casa loro.
La sessione dei delegati regionali alla comunicazione (carica che molto indegnamente ricopro per la Liguria) è consistita in un’ora e mezza di rettangolini sullo schermo del pc dove chi era di turno a parlare accendeva il video e il microfono per farsi vedere e sentire e gli altri tenevano il proprio microfono e videocamera spenti per non disturbare la trasmissione, rimanevano i nomi scritti sui rettangolini neri. Gli anni scorsi trascorrevamo un’intera giornata seduti nella stessa stanza in venti, venticinque tra delegati regionali e “dirigenti” della sede nazionale di Milano, facendo la pausa pranzo assieme, chiacchierando anche di cose vaghe e fuori tema, insomma vivevamo. Quest’anno l’unica botta di vita è stato lo scambio di saluti e auguri sulla chat di lavoro alla fine dello Zoom-incontro.
Questo convegno è stato sicuramente un successo dal punto di vista razionale e intellettuale ma – come cantano Edoardo ed Eugenio Bennato – “la realtà non può essere questa”. Poche settimane fa Francesca Lilla – punta di diamante dell’Ufficio Comunicazione di Banca Carige e mirabile capo redazione della Casana – parlando di me e di una comune conoscente/collega mi disse “siete due intellettuali”; accetto l’epiteto, in fondo mi piace, ma non riesco a vivere di sola intellettualità; rifuggo da sempre le folle informi ma ho bisogno di interazioni sociali. Sociali e intellettuali insieme, non è una semplice questione di avere degli esseri umani intorno, è che la parte razionale e intellettuale della vita per essere compiutamente e felicemente tale deve essere congiunta, interlacciata alla socialità. Socialità tra simili, naturalmente: per rendere entusiasmante questo convegno non sarebbe servito avere in casa con me una moglie, una compagna, dei figli, dei parenti, anche intellettualissimi, ma che si facevano i fatti loro; intorno a me ci sarebbero voluti i colleghi del FAI, i compagni di congresso, per dare un senso compiuto all’evento.
Certo, visto che proprio non è possibile fare altrimenti mi piglio il convegno in webinar, ma appena sarà possibile basta per favore!!! Una società dove ci si incontra solamente online mi sembra la brutta trama di un pessimo romanzetto di fantascienza. Come lo smart working: ok, io non ho un ufficio né veri colleghi, il mio lavoro è “smart” a modo suo e prevede parti che necessariamente devo svolgere in solitudine (non saprei scrivere in compagnia) e parti in cui devo interagire a tu per tu con le persone (ad es. quelle che intervisto); insomma diciamo che non ho veri titoli per parlare di ‘sto “lavoro agile” però mi perplime un po’… Sarà comodo per far risparmiare risorse e spese ai datori di lavoro e per ridurre l’inquinamento urbano ma dal punto di vista psicologico mi pare pericoloso, mi sembra un’istigazione al solipsismo, la negazione di quella socialità tra simili (e nel lavoro i “simili” non sono i parenti con cui si condivide la casa, sono i colleghi) che è indispensabile a costruire quasi qualsiasi tipo di attività umana ed è indispensabile alla qualità della vita. Almeno così mi pare. Poi magari a qualcuno che lo pratica piace davvero, lo smart working. Ma a me un mondo di “solitari connessi” sembra l’Incubo Assoluto.