In realtà io ho messo piede per la prima volta nella nobile, colorata, elegante, animata, vivace, internazionale, colta città di Heidelberg, nella Germania quasi meridionale, soltanto lunedì 8 di questo mese, quindi questa bella città e la mia memoria hanno poco a che fare l’una con l’altra, visto che non potevo ricordarmi di lei non essendoci mai stato prima. Però…

Il casus belli del mio soggiorno di due giorni a Heidelberg è stato un gradito invito ricevuto dall’Istituto di lingue romanze della locale università, nella persona del Dottor E.B., che è di Sanremo e fa il Lettore di italiano lassù; sono stato invitato a tenere una conferenza – in italiano – su “Come si scrive una guida turistica”; pagato e ospitato, e ciò è bello.

La conferenza-chiacchierata è stata una cosa per pochi intimi (l’uditorio constava di sei persone) ma erano intimi interessati e partecipi, ho avuto un’entusiastica presentazione iniziale (un’endiadi: infatti mi pare ovvio che una pre-sentazione sia iniziale) da parte del Professore titolare, ho ricevuto quattro domande/commenti (il 66% del pubblico, percentuale astronomicamente elevata), e ne sono seguite alcune lunghe e piacevoli chiacchiere durante la successiva cena internazionale che ha visto riuniti al tavolo di un grazioso ristorante cittadino Herr Professor, il Dottore Lettore, me medesimo e una coppia di (quasi) giovini studiosi catalani provenienti dalla città di Lleida/Lérida che erano a Heidelberg per le stesse mie ragioni. Conversazioni cenali in francese, ritengo per maggior dimestichezza di alcuni dei presenti con la langue d’oil piuttosto che con il più ovvio inglese, ma parlando Herr Professor un ottimo italiano ed avendo io già avuto esperienza, temporibus illis, della possibilità di comunicare e comprendersi reciprocamente fra italiani e catalani parlando ciascuno nella propria lingua, forse avremmo potuto usare l’italiano e il catalano senza passare per il francese. Ma son quisquilie.

Tutto bello, ok, ma dove sta il “o della memoria?”

Sta nel fatto che in quei due giorni tedeschi mi sono sentito riportato indietro ai “bei vecchi tempi” di quando lavoravo all’università o – per poco tempo – al CNR. Di quando andavo in giro per l’Italia e l’Europa e per qualche pezzetto di mondo per partecipare a congressi, visitare laboratori universitari, partecipare a riunioni scientifiche di varia fatta. Di quando dopo una giornata di lavoro (ammesso che l’ascoltare e il parlare di scienza in centri congressi e aule di università di città sconosciute e interessanti sia definibile come “lavoro” al pari del trascorrere otto ore in un ufficio o dentro una fabbrica o eccetera) si andava a cena con colleghi compatrioti e stranieri – alcuni dei quali sono diventati anche quasi amici e sono qui tra Voi Lettori – e si chiacchierava nella propria lingua madre, o nello scorretto e sgrammaticato ma a tutti comprensibile international english, o magari in francese se la maggioranza dei commensali al tavolo proveniva dalla Douce France e si portava dietro la francesissima ostentata antipatia per l’uso dell’inglese come lingua franca. E c’erano le conversazioni tranquille sul più e sul meno in cui ciascuno diceva la sua, e c’erano le “concioni” di chi amava fare un po’ il protagonista, e a volte era un vero piacere ascoltarli: ricorderò sempre l’enorme e canuto professor Kern che cantava durante una cena – mi pare fosse a Santa Vittoria d’Alba – con voce bassa e sonorità tedesche le ninne nanne alsaziane che sua nonna gli aveva insegnato quand’era bambino (e chissà se allora l’Alsazia era già francese o ancora tedesca…) o l’appassionata lezione di cucina-medicina-botanica sulle preclari virtù del peperoncino tenuta fra un primo e un secondo dal dottor Modugno, romano, e lì direi che si era a Gerusalemme ma potrei sbagliare.

Sia chiaro che il lavoro che faccio ora, di divulgatore di cose e notizie a scopo turistico per iscritto, mi piace assai e mi diverte ma quando avevo due lavori, il primo era quello dello pseudo-ricercatore molto precario all’università e questo che ho ora era un po’ la seconda attività, beh, in realtà era ancora più divertente. Va beh, ora va benissimo così ma quei 14 anni che trascorsi in tutto o in parte “scientifici” dal 1987 al 2001 sono davvero un bel ricordo.

“O della memoria” è anche il viaggio di ritorno fatto da Heidelberg a Genova in treno, attraversando la Svizzera da Schaffhausen a Zurigo a Milano, con quei comodi e per nulla veloci treni che costeggiano i laghi alpini, il lago di Zurigo, il lago di Zug, il bellissimo e montuosissimo Lago dei Quattro Cantoni, e mentre passi accanto alle sue acque blu scure è ora di pranzo e c’è il vagone ristorante… Capitò diverse volte – allora – di andare e tornare da Zurigo in treno per parlare di tecniche di diagnostica ottica e misurare cristalli e ologrammi, ed è stato un vero piacere ripassare in treno accanto a quei laghi, rimettere piede nella (rimodernata e quasi irriconoscibile) Zuerich Hauptbanhof, rivedere per brevi istanti il delizioso montano villaggio di Goeschenen col suo campanile alto e rossiccio che annuncia l’approssimarsi del buio, lungo tunnel del San Gottardo. Poi il Canton Ticino man mano trasforma paesaggi ed edifici rendendoli sempre meno germanici e sempre più italiani, tetti in tegole rosse, chiese cattoliche barocche in pietra grigia, qualche olivo, il lago di Lugano dai colori mediterranei… quei paesaggi del sud che esaltavano il giovane Hermann Hesse perché era da lì, dal sud che arrivava l’aria calda e vitale della primavera a sciogliere i freddi nevosi delle montagne e del nord, a riscaldare i laghi e i cuori.

(Scritto il 25 giugno 2009)

 

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