Domenica scorsa 12 settembre la Delegazione di Imperia del FAI ha organizzato una Serata Dantesca nel giardino di Irene Brin a Sasso di Bordighera. Non sto a raccontare a chi non li conosce cosa siano Sasso di Bordighera e il Giardino di Irene Brin, se volete li trovate (come tutto ciò che esiste nel mondo sublunare) in rete, tra Google e Wikipedia. Comunque sono un bel posto. Anche sulla Serata Dantesca, ci sono stati articoli che l’hanno annunciata nei giorni immediatamente precedenti su La Stampa, Sanremonews, La Riviera, Monaco Italia Magazine e qualche altra testata.
In questa occasione c’è stato chi ha fatto cose di un certo impegno, come l’artista Maria Dompè (ha il sito personale, cercatelo) che ha realizzato una “opera effimera” ispirata a una terzina del XXVIII canto del Purgatorio (il “canto di Matelda”) e l’esuberante (a dir poco) dentista Gioacchino Logico che ha recitato – a memoria, non leggendo – il XXVI canto dell’Inferno, il “canto di Ulisse”. Molto bravi entrambi.
Oltre ai due artisti, hanno contribuito alla serata l’illustre storica dell’arte Maria Teresa Verda Scajola, che ha presentato Maria Dompè e la sua opera, e io, che ho descritto e commentato il XXVIII canto del Purgatorio, quello a cui la Dompè si è ispirata per realizzare la sua opera effimera (effimera nel senso che l’ha realizzata i giorni precedenti alla serata per essere destinata a durare solo fino al giorno dopo).
Alla fine della serata un autorevole socio FAI sanremese mi ha chiesto di mettere in comune con questa comunità di Lettori il testo del mio discorsetto. Sinceramente non ci avrei pensato, per me ciò che avevo detto lì nel giardino era destinato a rimanere lì, ma accetto l’invito ricevuto e quindi, vostro malgrado, ecco qui tutto lo sproloquio….
È un canto forse poco noto al “grosso pubblico”, come in realtà è poco noto quasi tutto il Purgatorio; l’Inferno ottiene sempre più successo in termini di audience e di share, come si dice in italiano moderno. Ma è un canto importante perché qui si compie un ulteriore importante passo avanti nel cammino di Dante verso la Salvezza; qui cambia la guida spirituale del Poeta: Virgilio (che rappresenta la Ragione umana, che riesce ad avvicinarsi a Dio ma non lo può raggiungere da sola) ha concluso la sua avventura di guida morale attraverso Inferno e Purgatorio e alla fine del canto precedente, in un monologo non privo di emozione, sia per Virgilio che lo pronuncia sia per Dante che lo ascolta, ha”incoronato” Dante definendolo libero e saggio, signore e pastore di se stesso. D’ora in avanti, qui siamo sulla sommità del monte del Purgatorio, Dante avrà altre guide a condurlo attraverso l’ultima parte della sua ascesa morale e spirituale: nel Paradiso saranno Beatrice, simbolo della Fede, e dal XXXI canto San Bernardo, allegoria dell’estasi mistica. Perché la Fede permette di conoscere Dio ma vederlo faccia a faccia, vederlo di persona, solo i mistici ci riescono durante le loro estasi, la pura Fede non è sufficiente. Ma questa è tutt’altra faccenda, ora siamo nel XXXVIII canto del Purgatorio e qui restiamo…
Dante inizia il canto con queste parole: “Vago già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva / ch’alli occhi temperava il novo giorno, / sanza più aspettar lasciai la riva, / prendendo la campagna lento lento / su per lo suol che d’ogne parte auliva. / Un’aura dolce, sanza mutamento /avere in sé, mi ferìa per la fronte / non di più colpo che soave vento;…. (vv.1-9) Insomma, il XXVIII canto inizia con Dante che entra in una “divina foresta spessa e viva”, in una “selva antica” (v.23) che porta inevitabilmente a pensare alla “selva oscura” dove tutto era iniziato, non fosse che l’ambiente è completamente diverso; quella era “selvaggia e aspra e forte / che nel pensier renova la paura”; qui il poeta si muove in un ambiente per nulla pauroso, tra fronde che stormiscono, prati fioriti e profumati (il suol che auliva, come i ginepri folti di coccole aulenti della Pioggia nel pineto), augelletti che “operano ogne lor arte”, “gran variazion di freschi mai” (gran varietà di rami fioriti) e un rio di acque limpidissime e trasparenti benché scorra sotto “l’ombra perpetua (della foresta), che mai / raggiar non lascia sole ivi né luna”. Un ambiente naturale che con termologia “virgiliana” potremmo definire”bucolico” e con terminologia cristiana “paradisiaco”…
Al di là del fiumicello appare “una donna soletta che si gìa / cantando e scegliendo fior da fiore / ond’era pinta tutta la sua via” (vv.40-42). Una donna che va in giro da sola cantando e raccogliendo fiori. Dante la chiama e la invita ad avvicinarsi perché vuole udire il suo canto. La donna ovviamente non era capitata lì per caso “mah, oggi non so cosa fare, andrò a raccogliere qualche fiore nella divina foresta”, no, era andata lì proprio per incontrare Dante; si avvicina con mosse e con sguardo da “vergine che li occhi onesti avvalli” (v.57), alza gli occhi che a Dante appaiono splendenti più di quelli di Venere e inizia a spiegare dove si trovano, cioè nel “luogo eletto / a l’umana natura per suo nido” (vv.77-78) e si dichiara disponibile a rispondere a ogni domanda di Dante; qui il poeta manifesta un’intensa sete di conoscenza scientifica e chiede chiarimenti sulla situazione meteorologica del monte del Purgatorio, che secondo la cosmologia e la geografia di Dante è il luogo più elevato di tutta la Terra. D’altronde gli interessi scientifici di Dante sono sempre stati forti in tutta la Commedia, la geografia e la cosmologia del mondo ultraterreno dantesco sono precise e molto ben strutturate. La donna dà ampie spiegazioni sulla situazione geo-meteo-idro-botanica del luogo ove sono, partendo da una considerazione più generale: “Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace, / fé l’uom buono e a bene, e questo loco / diede per arr’a lui d’etterna pace”. Dio, il Sommo Bene che, solo essere perfettissimo, piace perfettamente a se stesso, creò l’uomo buono e atto a operare il bene e gli diede questo luogo come anticipazione della beatitudine eterna. Ecco, qui Dante (qualora non lo avesse ancora capito…) apprende definitivamente di trovarsi nel Paradiso Terrestre; e noi qui, in questo Giardino di Irene Brin e di Maria Dompè, accanto a questa “opera effimera” pensata e voluta dall’artista che le ha dato per nome proprio questa terzina, “Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace…”, possiamo pensare di trovarci nel Paradiso Terrestre con lui. Questo, qui a Sasso di Bordighera, è per noi, adesso, il Paradiso Terrestre.
La donna poi continua:”Per sua difalta qui dimorò poco;per sua difalta in pianto e in affanno cambiò onesto riso e dolce gioco” (91-97) Però a causa della sua colpa l’uomo qui dimorò poco cambiando l’innocente piacere e la dolce gioia in pianto e in affanno. Più esattamente vi dimorò solo sette ore, secondo quanto dice Adamo in Paradiso XXVI 139-142, quindi veramente poco. [Nota a margine: da dove ricava Dante l’informazione sulle sette ore di Adamo?Probabilmente dalla Historia Scholastica, una storia dell’umanità dal Paradiso Terrestre alla prigionia di San Paolo a Roma, che fu scritta dal sacerdote teologo francese del XII secolo Petrus Comestor, che il poeta italianizza in Pietro Mangiadore; ma a sua volta, da dove aveva ricavato l’informazione sulle sette ore Petrus Comestor? Ecco, questo proprio lo ignoro].
Dal punto di vista del cammino personale di Dante, le informazioni più importanti che riceve sono quelle sul fiume, anzi sui due fiumi che scorrono nel Paradiso Terrestre:“L’acqua che vedi non surge di vena / che ristori vapor che gel converta, / come fiume ch’acquista e perde lena; / ma esce di fontana salda e certa, / che tanto dal voler di Dio riprende / quant’ella versa da due parti aperta”(vv.121-126) Insomma, da una fontana che ha portata costante perché dipende dal volere di Dio e non dal ciclo meteorologico delle precipitazioni atmosferiche, escono due fiumi la cui acqua al termine del suo corso torna alla fontana per ricominciare il ciclo. Un circuito chiuso, insomma.
E ancora “Da questa parte con virtù discende / che toglie altrui memoria del peccato; / dall’altra d’ogni ben fatto la rende. / Quinci Letè; così dall’altro lato / Eunoè si chiama, e non adopra / se quinci e quindi pria non è gustato / a tutti altri sapor esto è di sopra” (vv.127-1332) I due fiumi sono il Letè che cancella in chi ne beva l’acqua la memoria dei peccati commessi, e l’Eunoè, il cui sapore è superiore a ogni altro, che fa ricordare il bene fatto. Ma perché tutto ciò abbia efficacia occorre che vengano gustate le acque di entrambi i fiumi. Il canto poi si conclude con la donna che suggerisce a Dante che “Quelli ch’anticamente poetaro / l’età dell’oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro. / Qui fu innocente l’umana radice; / qui primavera sempre ed ogni frutto; nettare è questo di che ciascun dice” (vv.139-144): l’età dell’oro cantata dai poeti precristiani (come Virgilio) forse rappresentava l’inconscio ricordo ancestrale, l’archetipo junghiano per così dire, del breve periodo vissuto dall’umanità nel Paradiso Terrestre; periodo che ora diventa evidente agli occhi del poeta cristiano che è riuscito ad arrivare di persona in questo luogo.
E qui si conclude il canto; ma ora sorge spontanea una domanda: ma chi è questa “bella donna” che intrattiene Dante?Curioso che in un poema in cui abbondano nomi e informazioni precise sui personaggi incontrati (tranne forse una volta, quando Dante menziona “colui che fece per viltade il gran rifiuto” nel III canto dell’Inferno, tra gli ignavi, senza nominarlo esplicitamente) manchino quasi del tutto i dati anagrafici di questa donna: benché sia presente dal ventottesimo al trentatreesimo canto, quindi non è una toccata e fuga, il suo nome, Matelda, compare soltanto una volta, al v.119 del XXXIII e ultimo canto, pronunciato da Beatrice. Dante non dà spiegazioni su questo nome; molti dantisti ritengono che rappresenti una donna storicamente vissuta, un personaggio reale; forse Matilde di Canossa, potente feudataria e ardente sostenitrice del papato nella lotta per le investiture vissuta tra XI e XII secolo personaggio di assoluto primo piano in un’epoca in cui le donne (a differenza di adesso?) erano considerate di rango inferiore, forse Matelda Nazarei monaca clarissa di Matelica (MC) coetanea di Dante e canonizzata nel 1765 come Beata Mattia Nazarei, che il poeta avrebbe potuto conoscere durante i suoi viaggi nelle Marche. Ma sono solo ipotesi. Sulla figura di Matelda i critici si son sbizzarriti, com’è giusto; è considerata il simbolo della condizione umana prima del peccato originale; Natalino Sapegno ha detto che Matelda è “l’immagine della felicità terrena, sia nella sua manifestazione perfetta anteriore alla prima colpa, sia nella forma in cui essa resta concepibile e possibile dopo la caduta di Adamo”. Altri hanno detto che il suo sorriso e la luce dei suoi occhi sono l’immagine della gioia di una creatura innocente di fronte alla bellezza inesauribile del Creato. Creatura innocente come dovremmo/potremmo/vorremmo essere noi umanità tutta, e dal peccato originale in poi non possiamo più esserlo. Matelda completa per Dante la sapienza ottenibile attraverso la Ragione umana (fin qui rappresentata da Virgilio) e anticipa la sapienza ottenibile tramite la Fede e la Teologia (di cui sarà simbolo Beatrice). Oltre a dare in questo canto a Dante le spiegazioni che egli cerca, Matelda avrà l’importante funzione di aiutarlo a immergersi nei due fiumi, immersioni senza le quali non gli sarebbe possibile entrare nel Paradiso: lo aiuterà a immergersi nel Letè che gli fa dimenticare i peccati commessi nel XXXI canto, e nell’Eunoè per ricordarsi il bene compiuto nel XXXIII, dopodiché si troverà infine “puro e disposto a salire alle stelle”.