La sottile raccolta di racconti brevi di Jorge Luis Borges che va sotto il nome di Finzioni è a mio personale e poco umile parere uno dei capolavori della letteratura mondiale.
Non sono il solo a pensarlo, visto che Borges è uno dei più celebri “non-premi Nobel” del Novecento. C’è chi dice che non ha mai avuto il Nobel perché gli attempati accademici di Svezia che attribuiscono il premio non hanno mai capito la genialità e la profondità di pensiero dell’Omero cieco argentino; c’è chi dice che non gli hanno mai dato il Nobel perché egli era politically uncorrect, avendo manifestato simpatie (o almeno non-antipatie) verso Pinochet e la sua dittatura cilena in anni in cui in Occidente un intellettuale o era di sinistra o non era. Non so, e in realtà non mi interessa. Ormai è morto da lungi, adesso sta nel cielo dei poeti a “parlar direttamente col persiano” come di lui diceva Guccini una ventina d’anni fa.
Uno dei racconti di Finzioni ha per titolo “L’accostamento ad Almotasim”.
Si narra di un indù che durante un incontro con un individuo della più infima condizione morale e materiale scorge in costui un barlume, una scintilla di umanità assolutamente “fuori posto” in un uomo di tale bassezza; l’indù si convince che questa scintilla di luce sia entrata nell’anima di questo spregevole individuo grazie all’influenza – certamente lontana e indiretta – di un personaggio dall’anima luminosa. Un personaggio sconosciuto che l’indù si decide a cercare. Scopre che questo “santo” si chiama Almotasim e risalendo a ritroso la successione di persone via via meno infime che hanno subito la sua influenza sempre meno indiretta, arriverà finalmente al cospetto del “santo” Al-Mutasim, in una conclusione del racconto aperta e ambigua, quasi metafisica, molto borgesiana.
Mi chiedo se ciò che io, voi, qualunque essere umano sulla Terra facciamo, diciamo, pensiamo, durante la nostra vita ci rende un po’ Almotasim. O per dirla in termini evangelici, quanto riusciamo a essere buoni seminatori? sapete, la parabola del seminatore, quello che getta il seme e parte cade sui sassi, parte sui rovi, parte sul terreno fertile e dà buon frutto…
A prescindere dal tipo di terreno in cui cadrà il seme che gettiamo, abbiamo qualche buon seme da spargere sui campi? Riusciamo a lasciare qualche buona traccia di noi nel mondo, per gli altri e attraverso gli altri?
Quando ero negli scout mi si diceva e dicevo a mia volta che l’importante è seminare, confidando nella Provvidenza e nel Caso per la nascita di buone messi. Continuo a condividere questa affermazione, ma la curiosità di immaginare come possa essere la qualità di questo raccolto nato dai semi che ho sparso e chi possa essere colui che lo mieterà, questo pensiero ogni tanto mi viene. Anche attraverso la veloce rilettura di un breve e un po’ pedante racconto di Borges.
Sono pensieri che credo possano teoricamente venire in mente in qualunque momento dell’esistenza ma probabilmente spuntano più facilmente quando ci si sente nella seconda parte del cammin di nostra vita (e io che ho 48 anni penso ben di aver superato la metà, ormai) e soprattutto, forse, quando non si hanno figli; ché chi è genitore lascia almeno una discendeza biologica, un “seme” che diventa messe nel vero senso biologico del termine. E chi non ne ha?
Ad esempio, io, nel mio piccolo, riesco a essere Almotasim di qualcuno? Magari, proprio come nel racconto di Borges, di qualcuno che non conosco perché si trova al termine di una catena di persone di cui io conosco solo la prima?
Non lo so e certo non posso saperlo, ma sinceramente spero di si.
(scritto il 13 aprile 2007)