Uno dei nostri antichi desideri, miei e di Donatella (e da prima di conoscerci! avevamo lo stesso desiderio l’uno all’insaputa dell’altra… ma come siamo teneri!!!!) era quello di fare un giro in Provenza durante la fioritura della lavanda. Che a furia di vederle in cartolina, quelle distese di cespugli di lavanda ordinatamente allineati e ondulati, uno gira e bazzica la Provenza da più di vent’anni e non aver mai visto i campi di lavanda in fiore! che vergogna!
Sabato avrebbe dovuto essere la giornata dei Becchi Rossi, a camminare sui monti del Cuneese, ed è stata la giornata della rue de lavande. Un pezzo di una delle rues de lavande, che gli appositi siti web ne indicano parecchie in giro per quella delizia di regione che è la Provenza, la “Provincia” degli antichi romani, la prima e forse la migliore provincia del loro impero.
E’ mia convinta opinione, e so che Donatella condivide, che il paesaggio della Provenza è uno dei più affascinanti, deliziosi, completi che esistano in Europa; insomma una gran bella terra, bella per rocce, fiumi, mare, montagne, vegetazione, borghi, città, luce del cielo, profumi dell’aria, colori del paesaggio. Una bella lotta con la Toscana, e non so chi vinca. Ammesso che si debba vincere in questo genere di gare.
E così ci siam fatti il giro per lavanda, con la gradita compagnia di Anna l’Omeopata. Un po’ di strade e colline fra l’azzurrissimo lago di Sainte Croix e la piazzetta con fontana in pietra chiara di Valensole, a cavallo fra i dipartimenti del Var (83) e delle Alpi dell’Alta Provenza (04). Giocando come bambini a entrare nei campi, ad accucciarci fra i cespugli, a fotografarci con la faccia immersa nel viola dei fiori e le orecchie ronzanti del brusio delle api che nettaravano lì intorno, mentre altri turisti en passant come noi facevano altrettanto poco più in là, uno addirittura era salito sul tetto della sua auto a filmare dall’alto il viola dei fiori che circondavano la strada.
Due, cinque foto, due salti fra i cespuglioni, poi via in auto… mezzo chilometro dopo altra sosta, altro campo diritto (coi filari perpendicolari alla strada, quindi facili da percorrere) o storto (coi filari paralleli alla strada, che devi scavalcare i cespugli per entrarvi) ma scenografico q.b. per fare un’altra sosta, altre foto, altre annusate dei fiori, altro terriccio dentro le scarpe, poi via ancora, ad libitum…
Ovvi acquisti di profumo, essenza e fiori secchi in un negozietto specializzato trovato strada facendo, e breve attività di traduttori per aiutare nella conversazione una coppia di milanesi totalmente a-francoglotti che chiedevano lumi sulla strada per il mare al lavandeur locale; pieni di buona volontà, i due milanesi, ma così inetti con la lingua francese che io, che sono notoriamente presuntuoso e saccente, mi stupivo in cuor mio di come si possa non capir un accidente di nulla di francese come quel bravo giovine e la sua compagna di viaggio. Il francese, mica l’ungherese o l’estone! E nella mia presunzione mi vergognavo un poco di essere un compatriota di costoro.
La lavanda per me, al di là del piacere olfattivo e cromatico dei suoi fiori e del piacere estetico dei suoi filari ordinati, ha anche un significato come ricordo d’infanzia: era grosso, o almeno così a me pareva, bimbo 4-10enne, il cespuglio di lavanda che troneggiava nel giardino di Ormea sotto al Vecchio Pero. Grosso e profumato. Grosso e violetto. Grosso e perennemente circonfuso di vespe, api e bombi, come pure le pere che cadevano a terra dall’albero soprastante. Per via dei troppi imenotteri che sempre vi svolazzavano in giro, prima il pero (peraltro “vecchio”, e i peri non sono alberi longevi) poi la lavanda vennero sacrificati da mio nonno in nome della salute dei “cit” (i piccoli, io e mia sorella), che non dovessero subire punture di vespa. Mi dispiacque, inconsciamente già allora tifavo per gli alberi e non per chi li taglia. Ma forse il rischio di essere punti, cit o adulti, era reale, i ricordi son vaghi ma sono davvero pieni di insetti bruno-gialli ronzanti, e proprio nel mezzo del giardino…
Dove non fiorisce la lavanda fioriscono delle ginestre giallamente giallissime, nelle boscose colline non coltivate intorno all’altopiano di Valensole, e spargevano un profumo che entrava nell’auto in marcia anche con i finestrini quasi chiusi.
Poi c’è il mitico canyon del Verdon, les Gorges du Verdon, anch’esso da lungi decantato ma mai visto di persona, il verde e roccioso canyon del fiume Verdon che si dovrebbe percorrere in canoa a pelo d’acqua ma va bene anche in auto sulla strada in quota, che i panorami son migliori e baratrosi. Bel colpo e inatteso, il Verdon! Tanto ne avevo sentito parlare da 20 anni, e mai l’avevo scorto nemmeno da lontano. E invece, quasi per caso, eccolo lì.
Dove la strada scende a pelo d’acqua, niente più canyon ma rimane ugualmente un bel torrente, abbiamo messo i piedi sudaticci nella corrente, e c’era pure chi faceva il bagno, peccato non aver pensato a portarci il necessario.
Giusto lì fra le curve del Verdon la Trappoletta, la mia Y10 di undici anni, ha compiuto i suoi 200.000 km. Festeggiati con foto in posa come nei dagherrotipi dell’Ottocento. E perdendo un pezzo di coprimarmitta, probabilmente sbullonato da uno dei cinquemila sobbalzi subiti nelle ultime settimane girando per le strade forestali e sconnesse della val Bormida savonese, ma non è stata una gran perdita. Poi, con duecentomila chilometri sulle spalle, che vuoi che sia un semicilindro di ferraccio che cade in terra! Ne ha viste ben di peggio, in undici anni! E chissà cosa vedrà ancora…