Esiste in Europa un’isola dove borghi e città sono distanti fra loro e separati da vaste estensioni di terreno spopolato. Ci sono colline e campagne coperte d’erba verdissima e colorata da milioni di fiori di millanta colori. Greggi di pecore brade pascolano tranquille in questo mare d’erba percorso da bassi grigi muretti a secco su cui soffia il vento. Lo stesso vento che sposta rapide nuvole nel cielo a tratti illuminato da un sole caldo, a tratti uggioso di pioggia. In una città di quest’isola si produce una birra il cui nome è per i bevitori sinonimo dell’isola stessa.
Che isola è?
Facile: è la Sardegna. Cosa pensavate, sciocchini, che stessi parlando dell’Irlanda? No, l’isola verde e fiorita, ventosa e piena di pecore, con la sua birra autoctona e il cielo che muta colore è la splendida Sardegna nella sua veste primaverile. La più bella Sardegna possibile.
Perché la Sardegna ha questo difetto: cioè, il difetto non sta in lei, sta in noi “continentali” che siamo abituati a pensare a lei soltanto in estate e quasi solamente per il suo mare e le sue coste. Invece è una terra molteplice e completa, con caratteri più da piccolo continente che da semplice isola. E soprattutto non è “gialla” come appare a chi percorre le sue campagne secche e assolate nei mesi estivi: in aprile è verde, è verdissima, è un tripudio di erba e di grano giovane, e fra il verde dell’erba e del grano splende una quantità incommensurabile di fiori di tutti i colori e di tutte le specie. Per me che amo molto la parte vegetale del mondo (e idem per Donatella), quei 5 giorni – dal 21 al 26 aprile – e quei 1000 km di viaggio attraverso l’isola da sud a nord a est a sud (per lavoro mio) sono stati un piccolo viaggio nel paradiso. In effetti il sostantivo “paradiso” deriva da un vocabolo sanscrito o iranico che significa “giardino, parco”. Il Paradiso Terrestre che leggiamo nel libro della Genesi è la traduzione del “gan be Eden” ebraico, cioè il “giardino dell’Eden”. Giardino = Paradiso. La campagna sarda in primavera = quasi la stessa cosa.
Ma quei 5 giorni sono stati anche parecchie altre cose, non solo erba e fiori. Vediamo…
Intanto le ragioni che ci hanno portato là, ovvero i tre articoli da scrivere per una nota rivista trimestrale genovese di varia cultura:
1) uno strano agrume brutto e grosso che le donne di Siniscola (sulla costa orientale, a nord del golfo di Orosei) trasformano in dolci saporiti e impegnativi: sa pompìa intrea, sa pompìa prena, s’aranzata thiniscolesa. Questo agrume si è meritato l’inserimento nei Presidi Slow Food, si chiama pompìa e lo conoscono praticamente solo là dove vive, a Siniscola e dintorni.
2) il vino Carignano del Sulcis, che nasce da un vitigno robusto e sabbioso e che dopo esser stato per secoli un anonimo vino da taglio, un Cenerentolo dell’enologia italiana, è diventato un signor vino, un principe ammirato e riverito; un “vino molto poetico”, come ci ha detto la giovane e leggiadra enologa della Cantina Argiolas di Serdiana che ce ne ha parlato e degustato
3) il Trenino Verde, ovvero una rete di antiche linee ferroviarie a scartamento ridotto che si arrampicano come capre nelle montagne della Sardegna più interna e tortuosa. La linea che abbiamo provato noi – da Mandas a Sòrgono – è molto tortuosa e moltissimo interna.
La pompìa, come tutti i Presidi Slow Food che ho incontrato in giro per l’Italia facendo questo lavoro (e spero di incontrarne ancora), è una dimostrazione di quanta gente c’è che ama la propria terra, la propria storia, la propria cultura e fa tutto quel che può per non fare morire la terra né dimenticare la storia e la cultura. La loro terra, storia, cultura locale che sommata a tutte le altre terre, storie, culture locali diventano la terra, la storia e la cultura d’Italia. Quella cultura che qui in Italia “si mangia”, eccome se si mangia. E dà da mangiare a un mucchio di italiani, per fortuna, e speriamo che continui così anche durante e dopo la Grande Krisi Economika Europea.
Idem per il vino Carignano, fortissimamente legato al suo “terroir” e alle dune sabbiose e salate su cui viene coltivato, e idem per chi lo coltiva e si sbatte per renderlo sempre migliore e per venderlo anche all’estero. Un pensiero: alla Cantina dove siamo andati ci hanno accolto due donne, l’enologa e la titolare o comunque della famiglia titolare; carine e giovani, direi entrambe intorno ai 35 anni. Di “donne del vino” so che ce ne sono tante in Italia, sarà questo il futuro dell’enologia italiana? Se lo fosse, benissimo.
Il Trenino Verde è un intelligente modo di non far morire linee ferroviarie che sono state importanti ma ormai avrebbero più poco senso. Il 25 aprile i due vagoni diesel della linea che abbiamo fatto noi erano zeppi di turisti ed escursionisti di molte parti d’Italia e del mondo, cagliaritani, veneti, tedeschi o similiari, e noi due liguri. Tre ore e mezzo andata più 3 ore e mezzo ritorno su ‘sta specie di trenino di Casella (i genovesi capiscono il paragone) sono impegnativi ma ci hanno permesso un’immersione nel meglio del folto della Sardegna di montagna. Pochi paesoni e tanti, tantissimi, migliaia, centinaia di migliaia di alberi, lecci, sughere, querce e che altro ancora, e migliaia di fiori lungo la ferrovia, orchidee selvatiche, piccoli ciclamini selvatici, cespugli di lavandula a distese; poi le pecore e le capre brade, compreso quel grosso gregge che stazionava sulla ferrovia davanti alla galleria più lunga e quando il treno è arrivato ha iniziato a fuggire dentro al tunnel. Stop del treno e discesa di un gruppo di passeggeri che si sono trasformati in pastori e hanno efficacemente operato per fare uscire il gregge dal buio e liberare la linea. Molto pittoresco!
Piacevole dal punto di vista umano e molto opportuno ai fini della preparazione dell’articolo fu l’incontro sul treno col signor Gesualdo Sanna (con Google lo si trova, lavora ai beni culturali di Cagliari ed è stato sindaco di un paese del Cagliaritano) e la sua numerosa famiglia: un appassionato esperto di storia e ferrovia locale, di quelle persone che uniscono l’erudizione con la simpatia umana.
Mi ha affascinato la quantità di alberi della Sardegna interna, che a differenza dell’erba e dei fiori ci sono anche in estate e infatti già ne avevo visti le altre volte che sono andato nell’isola, ma ci abbiamo passato praticamente l’intera giornata dentro, e anche Sòrgono, dove abbiamo trascorso 4 ore fra la fine del viaggio di andata e la partenza di quello di ritorno con sosta nella piacevole trattoria, anche Sòrgono è un paese di montagna circondato dai boschi, una cosa che esce parecchio dal comune stereotipo della Sardegna turistica. Boschi e boschi e ancora boschi, con ‘sto trenino che ci traballa attraverso, e sale e scende, e curva a destra e poi subito a sinistra, e passa su ponti curvi e inclinati appesi su piccoli ruscelli, e poi ancora boschi e alberi e fiori, il lago artificiale con la chiesa sulla roccia, infine campi coltivati, pale eoliche, un nuraghe… Tutt’altra cosa dalla Costa Smeralda con le feste di lusso che tanto piacciono a quel “comunicato e liberato” di Formigoni, tutt’altra cosa.
Un “must” dei miei occasionali viaggi in Sardegna è andare a trovare Cherchi. Il carabiniere in pensione Angelino Cherchi è un arzillo 87enne che vive con la moglie molto sarda e piuttosto baffuta in un paese poco lontano da Sassari. Per molti anni, un bel pò di decenni fa, prestò servizio a Genova alle dipendenze di mio padre con grado di Appuntato e con la mansione ufficiale di autista, ma in pratica svolgeva anche la funzione di attendente dell’ufficiale comandante (ovvero mio padre). Io lo conosco da quando ero bambino e ragazzo e gli voglio bene come a uno zio e mi pare ben che lui ne voglia altrettanto a me e a tutti i miei familiari. Aveva conosciuto Donatella già 11 anni fa e siccome è da allora che non andavamo in Sardegna, era undici anni che non lo vedevo e lo sentivo solo durante le tradizionali telefonate natalizie; è di quelli che invecchiano bene, sarà che era calvo già a 40 anni ma l’ho trovato praticamente uguale a come lo avevo lasciato nel 2001, solo un po’ più magro. E sua moglie ha gli stessi baffi di allora e continua a chiamarlo Cherchi, per cognome, come fa il Commissario Maigret – Gino Cervi con sua moglie che chiama sempre Signora Maigret. Per me è stato un tuffo nel passato, a parlare di mio padre e dei carabinieri e sottufficiali che lavoravano con lui e che io conosco o conobbi (alcuni sono morti ormai, non solo mio padre) di persona o almeno di nome.
Una delle cose belle del viaggiare è che posso andare a trovare persone, amici che vivono lontani dall’angolo di Terra in cui vivo abitualmente e che vedo di persona molto raramente. Non solo Cherchi, la cosa è successa e può succedere anche con altri. Incontrare un amico dopo undici anni che non lo vedevo… che non c’è telefono né email né skype né altro che valga il vedersi di persona, guardarsi e parlarsi a distanza di mezzo metro, abbracciarsi, stringersi la mano, pranzare insieme intorno allo stesso tavolo.
Non so se qualcuno si ricorda di quando scrissi dell’abbazia di Farneta presso Cortona; fu un anno fa in occasione di un giro nelle Marche per lo stesso lavoro che mi ha portato in Sardegna oggi. Passai a visiare quella piccola chiesa isolata nella campagna toscana tornando da Jesi e mi resi conto che da quando l’avevo conosciuta, con gli scout nel 1979, vi ero tornato una volta ogni circa dieci anni. Con Cherchi è lo stesso, passano molti anni da un incontro e l’altro e ognuno si riallaccia al precedente quasi come se non fosse passato così tanto tempo. E questo, secondo me, è un bel segno di amicizia reciproca. Come ben mi disse Elena di Ferrara l’ultima volta che ci incontrammo dopo nove anni dall’incontro precedente, ricordi Elena?
I b&b dove abbiamo dormito sono stati cercati e trovati bene; faccio nomi e cognomi perché se a qualcuno venisse voglia di andarci fatelo che se lo meritano:
prima notte all’agriturismo Riu Sa Murta ad Assemini a venti minuti di auto dall’aeroporto di Cagliari (volo Ryanair da Genova, arriva giù alle 20); ottima cena cucina sarda di terra, buona sistemazione nella campagna fiorita sotto il cielo stellato
due notti al b&b Vistamare a Santa Lucia di Siniscola, grazioso borgo di pescatori e pochi turisti con casette basse e torre di guardia sul mare, senza condomini, con una magnifica pineta costiera bellissima da percorrere a piedi lungo il mare fra piccoli iris viola e altri fiori gialli (o rossi, o blu…). Stefania Benedetti, sarda-perugina, è la giovane e gioviale titolare molto ospitale, generosa di informazioni turistiche su tutto lo scibile siniscolese e fornitrice di marmellate fatte in casa a colazione. La mamma di Stefania vive in una casa con giardino-orto sulle colline ed è un’appassionata cultrice della storia sarda. Sono una bella coppia, figlia e mamma.
Poco lontano da Santa Lucia c’è Capo Comino, col faro sulla roccia stile Irlanda e chilometri di sentieri fra la macchia mediterranea fiorita e piccole spiaggette. A nord del capo ci sono spiagge di dune bianche che Donatella ha definito “caraibiche”. Poi a Santa Lucia, vicino al b&b di Stefania, c’è una trattoria di giovinotti simpatici che preparano il giambotto, una specialità della casa molto gustosa: è un “pastotto” nel senso un piatto di pastasciutta cotto come un risotto in un brodo di pesce spesso, con frutti di mare e non ricordo cos’altro… molto buono, saporito, magari anche non leggerissimo ma alquanto meritevole.
Infine due notti al b&b Melograno a Mandas, colline a nord di Cagliari, da Maria e suo marito, anche loro gioviali conversatori e fornitori di colazioni caserecce, con galline e galli ruspanti nel giardino-orto. Squisiti i formaggi del locale caseificio Garau, buoni e a buon prezzo. Vendono anche online.
Insomma, questa era l’ottava volta che andavo in Sardegna ma le altre sette erano state tutte in estate, agosto o settembre. Mai avevo visto e ammirato la verdissima Sardegna primaverile, e ora che ho avuto la possibilità di farlo – e ringrazio chi mi ci ha mandato… – spero proprio di ritornarci.
(Scritto il 10 maggio 2012)