Sembra un po’ estate, quasi per sbaglio. L’aria è caldiccia e umidiccia: macaja, si dice. Il sole giallino velato scalda e appiccica un pò il tepore umido alla pelle, ma in questa primavera spesso piovigginosa e fredda sono quasi contento. Le nuvole si trasformano in cielo senza capire bene chi diventa cosa, un po’ bianche, molto grigiastre, illuminate anche da dietro dalla luce del sole sparpagliata in giro dall’umidità degli strati bassi dell’aria; il monte di Portofino sfuma nel nulla senza parere e le antenne bah? ci sono o non più?
Il mare è sporco. Calmo, alterna lo sciaquettio acuto, scplif scplif contro le roccette conchigliose con il rombo “cucciolo” (ruaff) di quelle poche piccole onde che arrivano da più lontano e bagnerebbero solo i piedi, se scendessi mezzo metro più giù. Visto da sopra, dal piazzale, sembra immobile. E con st’aria molle lo scplif e il ruaff sono indispensabili per rendere chiaro che di mare si tratta e non di palude. Sporco, con balenii oleosi controluce, pezzetti di legno, foglie secche, erbe galleggianti, qualche fetenzia umana, piccola rumenta sparsa, insomma come un qualunque mare urbano che si rispetti col vento verso costa. Che un comune che cura il proprio ambiente fa le fognature lunghe e lontane, che gettino tutto molte centinaia di metri al largo, ma se non ci mette i depuratori, o non li fa funzionare bene, poi basta uno schirocchino leggero e tutta la sua merda torna a fargli visita contenta. E la tramontana perenne nessun sindaco riesce a garantirla. A vederlo fa un po’ schifo, bisogna ammetterlo, però il rumore è piacevole, cullante, e se chiudo gli occhi e punto il viso al sole posso anche dimenticare la monnezza ed essere contento di questo breve e imprevisto anticipo di luglio.
Ma chi lo dice che bisogna chiuder gli occhi? Devo aprirli, guardare ‘sto mare, ché è il mio. Lo guardo, e penso… a cosa mi viene da pensare? Alla spiaggia della Kamciatka, percorsa l’estate scorsa, così pulita e così piena di oggetti, e pur così pulita, e pur così rutilante della rumenta della natura, le inutili macerie del suo abisso (Montale, eh…) e pur così pulita…Oppure, curioso, ad un racconto di fantascienza di chissà chi che avevo letto tanti anni fa, ero un ragazzino, a letto con l’influenza, e c’era ‘sto librone di racconti di fantascienza per ragazzi, è stata l’unica fantascienza che abbia mai letto, non ne ho mai avuto voglia, e dire che certe ambientazioni fantastiche mi affascinano moltissimo, tipo Signore degli Anelli, è una gioia dello spirito, strettamente connessa al Canto notturno del pastore errante dell’Asia, a certi dialoghi tra Marco Polo e Kublai, al telescopio che uso troppo poco, insomma non è mica bello che tutto il mondo sia stato esplorato e non ci sia più spazio sulle carte geografiche per scrivere Hic sunt leones, e puoi andare nel punto più sperduto del pianeta e tanto sai che c’è qualcuno che lo rappresenta all’ONU, dova va a finire la poesia e la magia dell’ignoto se sai che qualcuno a New York rappresenta quel pezzo di terra su cui stai poggiando i piedi. Bè, si diceva che c’era un racconto, del futuro, di un paesaggio deserto e desolato, con un mare che era un poco così: calmo, afoso, sciaguettante, lepegoso. Dici: bella roba che leggevi. Si, ma un po’ perché ciò che poteva essere stato angolo in quel presente é ormai diventato curva nella memoria, un po’ perché i ricordi d’infanzia hanno spesso sapore dolce, questo ricordo mi ha reso il mare odierno piacevole, me lo ha fatto diventare amico. Che se dimentico la materialità volgare della sporcizia galleggiante, il resto, afa, sole velato, sciabordio eccetera faceva anche tanto meriggiare pallido e assorto e sonnolenza del meriggio. Mancava il falco alto levato, ma i gabbiani supplivano egregiamente.
(Scritto nella primavera del 1994)