Peignaudu (più o meno) è il nome in dialetto.
In italiano suona Perinaldo.
Perinaldo è un village perché, un paese appeso, uno dei molti borghi italiani e francesi aggrappati alle pendici e ai crinali delle colline coperte di olivi e pini che dal Mar Ligure salgono verso le cime calcaree delle Alpi Marittime. Ce ne sono molti, di villages perchés, in provincia di Imperia e in Provenza.
Alle 21 di una sera di mezza estate da Perinaldo, guardando verso sud, si scorgono i barluccichii del mare di Bordighera e di Ventimiglia mentre verso nord l’Orsa Maggiore sovrasta la mole austera dei monti Toraggio e Pietravecchia, signori dell’estremo Ponente Ligure, dimore di larici, camosci e aquile, cime di aspetto rocciosamente alpino benché sfiorino appena i 2000 metri.
Il centro di Perinaldo è un delizioso susseguirsi di vicoletti acciottolati e gradonati, di case in pietra più o meno ristrutturate (benino, a parte il turbinio di cavi elettrici e telefonici che saltabeccano di muro in tetto), di voltoni che coprono i crocicchi dei vicoli, di vasi di fiori che colorano il grigio della pietra edilizia, di chiese e oratori di antica fattura, di scorci panoramici che aprono lo sguardo verso il mondo circostante. Niente auto, nel centro “storico”, non ci sarebbe nemmeno lo spazio. Solo gambe e il ricordo dei muli d’antan, ricordo mantenuto vivo da quelle porte sbrecciate che oggi si aprono su ripostigli e cantine ma che un tempo adivano a buie stalle per bestie da soma.
Perinaldo è un piccolo borgo di crinale dell’entroterra di Sanremo ma ha fama internazionale, almeno fra gli astronomi, perché ivi nacque, più di 300 anni fa (potrei controllare l’anno esatto di nascita ma nu ghe n’ho coae) Gian Domenico Cassini, insigne fra gli insigni astronomi sei-settecenteschi, che lungamente visse e operò alla corte del Re Sole, Luigi XIV di Francia. Scoprì un fracco di cose, il Cassini, cose tipo alcuni satelliti di Saturno, il periodo di rotazione (o di rivoluzione, non ricordo) di Venere e robe così. Insomma, nella storia dell’astronomia disse spesso e a ragion veduta la sua. Attualmente è ricordato dalla missione spaziale Cassini-Huygens che sta studiano Titano e l’ambiente naturale di quel satellite di Saturno così interessante (pare) per via delle sue condizioni ambientali.
13 agosto, Notte celtica 2005, dice il volantino giallognolo che pubblicizza e spiega la serata quasi ferragostana. Un successo perinaldese che si ripete ogni anno, noi ci eravamo andati già nel 2003 e ben volentieri ci siamo tornati quest’anno: una serata di cibi locali e suoni irlandesi, curioso connubio in verità ma come spesso accade (seppie coi piselli, pesce spada coi funghi, asparagi e immortalità dell’anima, Burlando e Scajola…) connubio ben riuscito.
Giracchiando lungo le vie del paesello si mangiucchiavano torte di verdura, bruss e paté di olive su fette di pane, fiori di zucca ripieni (meesane, si chiamano qua), pomodori secchi e altre amenità gastronomiche annaffiate da vini rossi, rossesi e bianchi, aperitivi e vini dolci. E nel mentre che giravi per le vie del borgo masticando e deglutendo ascoltavi i Birkin Tree (savonesi ma ormai di chiara fama nella stessa Irlanda; il loro capo Fabio Rinaudo è amico di Donatella dai tempi di gioventù), i Comunn Mor (anch’essi italici per nascita e lingua madre) e Elena Spotti che suonavano pive, chitarre, arpe e altri instrumenti traendone sonorità melodiche e ritmiche di sapore decisamente “celtico”, ballereccio o melanconico a seconda dei brani musicali eseguiti.
Dall’arpa di Elena Spotti uscivano in special modo suoni adattissimi ad accompagnare le canzoni menestrellesche di Angelo Branduardi, mentre i Birkin Tree e i Comunn Mor facevano un po’ di musiche da “ballo sull’aia”, di quelle arie che ti fanno battere il tempo col piede mentre le ascolti se non puoi alzarti a ballarle, e un po’ musiche stile “Mull of Kintyre”, ovvero cose nostalgiche da patria lontana e perduta.
Il tutto su ritmi un poco ripetitivi come è d’uso nelle musiche popolari (non pop), che secondo me alla lunga tirano, oltre che al ballo campagnuolo, anche alla trance mistica. Almeno mi pare che questa possa essere stata la ragione originaria (una delle -) di tutte queste musiche popolari antiche, quelle suonate dai Celti d’Irlanda come quelle dei Cantori delle Quattro Province dell’Appennino Ligure, quelle degli sciamani siberiani come quelle dei Dervisci roteanti o del Candomblé di Salvador da Bahia: attraverso la musica aprire un canale di comunicazione “alto” con il divino e il (sovran)naturale.
Più terra terra, la serata terminò con un’esibizione sulla pubblica piazza dei Beoga, irlandesi al 100%, che suonarono le loro musiche (non molto diverse in verità da quelle ascoltate nelle due ore precedenti dai 3 gruppi italiani; il che significa che i 3 gruppi italiani fanno davvero musica irlandese) a beneficio dell’intera cittadinanza e dei Signori Turisti convenuti in fase digestiva dagli sparsi vicoli e variamente assettati su agili sedie di plastica e sulla robusta scalinata della chiesa parrocchiale.
Ore 24 circa, a concerto finito si riparte per scendere a Sanremo percorrendo, stanchi ma soddisfatti, l’inevitabile mezzo milione di curve lungo i 20 km di strade provinciali raggomitolate fra i boschi del monte Bignone e di San Romolo, lasciandosi alle spalle le frescure dei 600 metri di altezza di Perinaldo, che ci aspetteranno fiduciose per la prossima Notte Celtica 2006.