N ragioni per andare a trascorrere una breve vacanza a Patmos, Grecia, ai primi di giugno:
siamo fuori stagione, quindi ci sono pochi turisti, non c’è folla sui traghetti (aliscafi nella fattispecie) o nei ristoranti e sulle spiagge c’è spazio per tutti, e i tutti sono sempre pochi – a parte i pullman di comitive di ateniesi con pope al seguito che occupano tutto il ristorante, ma è successo una volta sola ed erano comunque simpatici e non troppo casinisti;
la gente è cordiale e ti saluta quando ti incontra per strada anche se ti ha visto solo una volta, magari è il ragazzo del campeggio da cui hai affittato il motorino due giorni prima, o il cameriere della taverna della sera scorsa, o anche i vicini della spiaggia di ieri, tedeschi o svizzeri, che incontrandoti per strada ti rivolgono un sorriso e un cenno come d’intesa complice;
le spiagge, l’ho già detto, sono quasi deserte, i pochi bagnanti (poco bagnanti, anche, visto la temperatura subartica dell’acqua del mar Egeo) si fanno i fatti loro in silenzio oppure vengono educati e discreti a chiederti qualche informazione ma non si sentono radio chiassose, nessuno gioca a pallone sulle teste altrui, non ci sono ombrelloni e sdraio, dalle enormi tamerici che cingono la spiaggia sbucano contadini a dorso d’asino e candidi gatti in cerca di compagnia che fanno “i loro bisogni” in riva al mare, scavando buche che educatamente ricoprono, ci sono cagnetti con cui giocare a lanciarsi sassi e rametti;
il cielo è ellenicamente terso e il sole caldo ma non troppo, e talvolta c’è un bel vento fresco e teso (il meltemi lo conoscono tutti, almeno di fama, no?) e la sera per andare in giro in motorino ci vuole il golf o magari anche il giubbotto (gipponetto, in genovese);
le tamerici che separano le spiagge dai campi retrostanti sono enormi, per nulla salmastre ed arse, o magari salmastre si ma arse manco pe’o belin (la “o” in dialetto genovese si pronuncia generalmente molto chiusa, quasi “u”. I dialettografi moderni, tipo Fabrizio De Andrè, la scrivono “u” senza porsi troppi problemi di tradizione), sono alberoni folti, freschi, fanno un’ombra deliziosa nelle ore più calde e trasudano una resinetta appiccicaticcia e freschissima dalle foglie. Che poi sono aghi morbidi, come quelli dei cipressi e delle tuie.
l’isola pullula di taverne dai vari nomi e denominazioni (estiatorio, ouzeri, taverna…) dove si mangia con poca spesa (mai speso più di 22 euro in due, ma più spesso fra i 13 e i 17) ottimi piatti di pesce fresco, insalatone varie, suvlaki, tzatziki, si beve retsina, fisikò metallikò nerò (vulgo acqua minerale naturale), ouzo e insomma si gusta tutta la cucina greca nota internazionalmente; alla lunga un po’ monotona, forse, ma per una sola settimana può andare. Preferibilissime le taverne frequentate dai greci, magari con l’insegna scritta solo in greco e non anche in inglese, con i tavolini in legno e le sedie blu allineate nel vicolo sul retro, i gatti che vengono a scroccare gli avanzi e gli osti gioviali che ti salutano in italiano. Questo non è originale, in tutto il mondo i camerieri sono la categoria più poliglotta di qualsiasi città.
ci sono due enormi monasteri austeri bianchi fuori coloratissimi di affreschi e icone dentro; Patmos è celebre nella storia del Cristianesimo perché vi trascorse alcuni anni, circa dal 95 al 97 d.C. Giovanni Evangelista, quello del “in principio era il Verbo…” che qui a Patmos venne esiliato dall’imperatore Diocleziano (mi pare) e scrisse l’Apocalisse (Rivelazione, come più chiaramente dicono i protestanti e i testimoni di Geova). Il ricordo di Giovanni “Teologo”, come lo chiamano qua, è ponderosamente mantenuto vivo dal possente monastero-fortezza che troneggia alla sommità della Hora, la città alta, turrito e cinto da mura (c’erano i Turchi Ottomani da cui difendersi) e ricco di affreschi, icone, immagini e quant’altro mai all’interno. Poi c’è un secondo monastero, quello edificato intorno alla grotta in cui Giovanni visse ed ebbe le visioni che mise per scritto nell’Apocalisse. E’ più bianco e meno fortificato di quello che sta in cima all’isola, ma altrettanto suggestivo e esternamente quasi mistico, anche se l’abitudine un po’ pacchiana di trasformare in chiesone sovrabbondanti i luoghi semplici e scomodi dei Padri del Cristianesimo non mi piace granché: questo monastero contiene al suo interno la grotta di Giovanni, e assomiglia tanto alla basilica della Natività di Betlemme e alla chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, dove devi fare un sforzo non da poco per immaginare come dovevano essere quei posti in origine e renderti conto che in principio a Betlemme c’era una piccola cavità nel terreno, la grotta dove nacque Gesù, mentre a Gerusalemme, fuori delle mura di allora, c’era la cima di una collina – il Golgota, dove Gesù fu crocifisso – con un buco nella roccia poco distante – il sepolcro dove fu seppellito – e tutto ciò adesso è incastrato dentro una basilicona complicata e pletorica. Qui a Patmos è un po’ lo stesso, da una grotterella ne han fatto un monastero e una chiesa, che se fosse stata così ai tempi di Giovanni, quello le visioni apocalittiche non sarebbe riuscito a farsele venire nemmeno con 5 pere di crack al giorno, distratto dalle icone, dai visitatori, dal custode che chiacchiera a voce alta con un’amica.
l’aria risuona allegramente ad ogni ora del giorno e soprattutto della notte delle voci chiassose e cacofoniche di un’arca di Noè vivente e ragliante, che per un po’ ti diverte, ma alle 5 del mattino del 4° giorno ti fa rimpiangere i deliziosi silenzi delle notti cittadine, rotti saltuariamente da qualche motorino smarmittato o dai camion della spazzatura; qui è campagna, vera campagna, dove vivono e convivono cani, gatti, asini, cavalli, capre, galli, cornacchie, gabbiani, oche, civette, camelopardi, ircocervi, unicorni e ippocamporinolefanti; e ognuno vuol dir la sua, ogni esemplare di ogni specie mammifera o volatile canta, abbaia, bela, raglia, grida, starnazza, fischia, chiurla, zirla, pispola, garrisce, barrisce, frinisce, zufola e nitrisce, e tu ti chiedi come c…o fanno a dormire i patmensi (o patmioti). Sarà che si sono abituati… Però ti senti proprio immerso nella natura, questo si!
c’è Lula, simpaticissima e cordialissima padrona di casa, coi suoi 454 gatti, il marito Spiros che porta i turisti in barca a Lipsì insieme al figlio Manolo (ma non è un nome spagnolo?) e la figlia che non ricordo come si chiama ma è simpatica pure lei e parla bene l’inglese. Lula parla un grammelot greco-anglo-italiano confuso ma comprensibile e se ti prepara il caffè ci mette accanto due fettone di pane con marmellata e burro che basterebbero per la colazione di due gruisti. Lula dice (fra l’altro) “oreo bavio” che vuol dire “bel bagno”. Coi caratteri greci, e l’omega iniziale.
c’è la mamma di Lula, una vecchietta 100% greca e 100% vecchietta: piccola, nera, (se fosse anche analfabeta e soldato di fanteria potrebbe sostituire il piccolo tamburino sardo nel Cuore di De Amicis), curva su se stessa, dice “kalimera” e “parakalò” con voce acuta ma potente e chiara, e con ugual potenza e chiarezza lavora nell’orto fra verzure più alte di lei e maneggia con apparente disinvoltura un tubone per innaffiare che sfiancherebbe un pompiere.
nella piazza di Skala, sotto il palazzo di evidente e gradevole architettura coloniale italiana anni ’30, c’è il bar Houston, bianco-verde, con l’interno tappezzato di immagini di JFK e altre americanezze d’antan, gestito da una donnina che potrebbe essere in certo senso la sorella minore della mamma di Lula: anche lei piccola, anche lei nera d’abito – lei anche di capelli, però -, anche lei piccola di statura, però più eretta di spalle e, ahilei, assai più brutta. Senz’altro una delle più brutte donne mai incontrate, e una delle più simpatiche. Parla italiano con l’aria di quella che la sa lunga (e probabilmente è vero, durante la dominazione italiana forse andava già a scuola) e serve al tavolo con burbera giovialità.
Theologia e Theologos sono una coppia di nonni orgogliosi dei loro 5 figli eccetera, con cui abbiamo cenato una sera, lui simpatico ma un po’ legato dalla scarsa disinvoltura linguistica, lei fluente in italiano, matrona e signora, contadina-gran dama, un personaggio. Ha raccontato varie cose della dominazione italiana parlando bene di noi, spero fosse sincera.
la colazione inglese, con bacon uova succo d’arancia eccetera che si può fare a Vagia in un ristorante-bar nella campagna con un amplissimo panorama su una delle tante spiaggette e decine di piante da fiori benissimo curate che colorano la collina. Attaccata alle travi della veranda una tela acchiappainsetti e il padrone di casa, un ragnone policromo stupendo. Se si dimentica l’istintiva ripugnanza verso gli aracnidi, si nota facile come nel mondo dei ragni ci siamo dei capolavori d’arte e di colore, che uno si chiede ma che se ne fanno, ‘sti ragni, di quei disegni colorati che c’hanno sulla schiena, a chi devono piacere? A Dio. Basta come motivo? Forse si.
la spiaggia di Psili Amnos, in fondo all’isola, da raggiungere a piedi camminando mezz’ora buona nella macchia. Ci si va anche in barca ma a piedi è meglio. Fra capre che sembran stambecchi, arrampicate su sassi che Theòs solo sa come fanno.
l’isoletta e la spiaggetta di Marathi, dove ci sono due taverne e una sola famiglia, con un villaggetto di pietra abbandonato e cadente e una chiesetta linda biancazzurra. Il gestore della taverna accanto al pontile ha il physique-du-role dell’ex-tossico ex-leoncavallino, dice di avere una fidanzata italiana (di cui però non ricordava dove abitasse in Italia, mi sa che non è grande amore) e abita lì all year long con la sua scarsa famiglia e un pollaio immenso, più un cagnetto. Ci si chiedeva come facciano a passar l’inverno, ma forse è una domanda che ha un significato diverso per chi la fa provenendo da una città della terraferma e per chi la riceve vivendo in un’isoletta da Robinson Crusoe. Probabilmente non ci sarebbe stata possibilità di reciproca comprensione su questo argomento. Quindi accontentiamoci dell’insalata greca e del retsina.
Quante sono, dunque, le ragioni per andare a Patmos in giugno? N? Bastano?
(Scritto il 17 giugno 2002)