Che Shakespeare sia un grandissimo lo sapevo da tempo, ma me ne convinsi del tutto il giorno in cui andai a vedere un film “Romeo and Juliet” con Leonardo di Caprio e una attrice che non ricordo chi fosse, qualche anno fa; il film era una cosa kitsch pacchiana rococò chiassosa come poche. Ambientata in una Verona Beach sobborgo ispanico di Los Angeles, roba da inorridire i benpensanti, e infatti c’erano spettatori, anche giovani, o forse più giovani che altro, che se ne sono andati a proiezione in corso, disgustati. Peccato, perché (per me) era un gran bel film. Fedele, credo al testo scekspiriano, addirittura recitavano in rima (cosa che stupì non poco il giovine seduto dietro di me, evidentemente ignaro della musicalità originale del testo, che era – direi – assai ben mantenuta), e fedelissimo all’aspetto psicologico, spirituale, emotivo. Beh, se un Romeo e Giulietta si può trasformare così nell’aspetto esteriore e tuttavia mantenerne così intatto il senso e l’impatto emotivo, tanto di cappello a Shakespeare che l’ha scritto.

Pino Petruzzelli negli ultimi anni ha messo in scena Shakespeare con un suo Amleto (2001) e un suo Romeo e Giulietta (adesso), due monologhi intensi di un’ora ciascuno di Mauro Pirovano (ex-teatro dell’Archivolto divenuti Broncovitz poi eccetera) che nelle vesti di “Bacci da Pèntema” racconta, anzi “u cunta” appunto la storia di odio e ignavia del principe di Danimarca e la tenerissima tragedia amorosa dei due veronesi.
Bacci u cunta seduto a un tavolo di un’osteria di Pèntema (piccolo paese della montagna genovese con fama di posto sperduto fra i bricchi, la neve e i lupi, come in effetti è, un po’ come la piemontese val Dunduna, o chissà cosa in Lombardia o a Roma…), gambe larghe, braghe tirate su sui calzini bianchi corti, bottiglia di rosso e bicchiere alla Guccini, sposato all’Armida, genovese (la moglie non appare, ma lui ne parla spesso, si vede che la ama) e racconta a una voce fuori campo (Pino), voce che nonostante si spacci per genovese “de Zena” tradisce con quella zeta troppo pronunciata la sua origine cabibba (e Pino fa dell’autoironia, giacché un po’ cabibbo lo è davvero, con quel cognome da dove pensate che arrivi la sua famiglia? Lui comunque è di Ancona, che è a metà strada). Bacci racconta di fatti avvenuti in una città lontana “ma oltre Montoggio, eh?” con un buon dialetto zeneise, forse con qualche vocale larga da valbisagnino qual’è, racconta la storia d’amore di ‘sti due giovani veronesi e della loro morte sciocca e tragica.
Fa ridere, spesso e volentieri. Fa ridere sentir raccontare in dialetto con voce e gestualità paesana una storia così importante, così “internazionale”, trasformata in “ceto” di piazza, fa ridere sentire i commenti da persona semplice e di buon senso che intermezzano la narrazione, non fa ridere anzi quasi commuove il racconto della morte dei due innamorati, col pubblico che tace improvvisamente, partecipe al dramma.
Tutto esaurito nelle due sere genovesi di metà novembre, dopo una tournée estiva in giro per la Liguria.

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