Ogni tanto faccio un veloce giro a Ormea. Vado a vedere come stanno la casa, le rose e le ortensie del giardino, i susini nel Prato e i faggi nel Bosco. A volte passo a salutare la famiglia Botte, insigni agricoltori vicini di casa; a fine aprile ho fatto anche un salto fino a Upega a fotografare il Garb d’la Fus, meraviglia delle Alpi Liguri, che rumoreggiava e schiumeggiava per il prorompente disgelo primaverile che da qualche settimana sta riempiendo il fiume Tanaro di acqua color terra.
Ormea, paese dell’alta Val Tanaro patria d’origine della famiglia di mio nonno materno, dove abbiamo la tomba di famiglia entro cui riposano (ma sarà vero che i morti “riposano”? E se passassero le loro giornate ballando disco music e correndo in bici da cross? I teologi ci hanno mai pensato? Insieme ad angeli, arcangeli e cherubini, sia chiaro. Che diciamocelo, stare tutto il giorno a cantare le lodi di Dio… ma non si annoiano? Anche Dio costretto ad ascoltarli, poveretto, ‘ste anime sante saranno mica tutti dei Pavarotti e Callas, no?). Comunque, dicevo, abbiamo la tomba di famiglia coi due genitori (“figlio di pochi ma onesti genitori” si diceva una volta, quando ancora non c’erano l’ingegneria genetica e la fecondazione in provetta), due nonni e qualche bisnonno, abbiamo la casa di campagna con prato e bosco… In questa fase della mia vita sono quasi tre anni che non mi fermo più a dormire a Ormea, per ragioni e sensazioni mie, però ci passo – rapidamente – spesso e volentieri, in ogni stagione.
Di solito pranzo al Ristorante San Carlo
Al San Carlo il menù comprende buona cucina ormeese-piemontese, qualche sfiziosità autoctona e ampia scelta di trote (l’Albergo Ristorante San Carlo gestisce una rinomata riserva di pesca sul Tanaro); ma ciò che mi piace in particolare è il contesto ambientale-familiare, che mi fa sentire un po’ “a casa” anche quando ci vado da solo (cioè quasi sempre): locale a conduzione familiare, i capostipiti sono Renzo e Susanna; Renzo ora è parecchio invecchiato, sua moglie Susanna (nativa di Nizza, abbastanza più giovane di lui) continua a lavorare in cucina con impegno, affiancata dalla figlia Monica, creatrice delle sfiziosità di cui dicevo prima. In sala, insieme a qualche cameriera che lavora lì da anni, ci sono Stefania, sorella di Monica, Virginia figlia di Stefania e a volte anche Tommy figlio di Monica. Dietro le quinte da qualche parte c’è anche la mamma di Susanna, che ha novantanove anni. Quasi come la Queen Mum. La grande-mère però non l’ho mai incontrata.
Oltre ai turisti di passaggio (e alla streppa di pensionati di terza e quarta età ospiti dell’albergo a pensione completa nel mese di agosto) i clienti sono soprattutto gruppi di pescatori che vengono qui anche da Francia, Svizzera e Austria per pescare nella riserva. Un giorno ho chiesto a Stefania “ma quelli arrivano dall’Austria? Ma non ce l’hanno un fiume con le trote in Austria?” e lei mi ha risposto che questa è considerata una delle più belle riserve di pesca dell’intera catena alpina e quindi vengono qui anche da molto lontano. Indubbiamente il Tanaro nell’alta valle è un bel fiume (periodiche alluvioni a parte) quindi onore al merito. Ogni tanto trovi dei tizi che parlano tra di loro con sonorità tedesche ma è evidente che non è tedesco quello che stanno parlando, e si rivolgono ai camerieri in buon italiano o francese: sono svizzeri che parlano il loro schwyzerdütsch, chissà se a Berlino e ad Amburgo li comprenderebbero. Forse no.
[Ricordo dei tempi passati: Zurigo, col prof. Bedarida, anni Novanta, quando si andava all’ETH per cose universitarie a trovare i proff. Augusto e Marianne Cogoli; cena allo Zeughauskeller – la Cantina dell’Arsenale – tavoloni affollati, buona birra e ottime rösti; noi davamo le nostre ordinazioni in lingua tedesca più che decente e la cameriera ci rispondeva in dialetto zurighese; una fatica boia a comprenderla. Mi sono sempre chiesto perché non ci parlasse non dico in italiano (son convinto che lo sapesse) ma almeno in “tetesco di Cermania”. Non so se le abbiamo lasciato la mancia]
Vado volentieri al San Carlo non solo perché si mangia bene ma perché è una famiglia; dalla nonna Susanna alla men che trentenne Virginia, sono una famiglia e si vede. A parte i saluti, i sorrisi, il darsi del tu quando arrivo, credo che anche uno che arrivi lì per la prima volta capisca che quella è una famiglia e non un semplice gruppo di persone che lavorano nella ristorazione. E il senso familiare rende più piacevole il contesto.
Poi, si sa, anche l’occhio vuole la sua parte, e lì la ottiene: Stefania ha dieci anni meno di me ed è sempre stata una bellezza, sua figlia Virginia è diversa da lei nei dettagli ma è degna figlia di sua madre, Monica non la si vede mai ma ha due occhi che risveglierebbero un morto. Susanna madre e nonna è stata degna capostipite di siffatta progenie femminile. Non ho idea della grande-mère, in gioventù sarà stata uno splendore pure lei? Probabile…
Poi gli abeti: fuori dalle grandi vetrate del salone c’è una serie di altissimi bellissimi abeti rossi; ho sempre trovato piacevole e riposante pranzare osservando di fronte a me questi alberi allampanati e folti che oscillano al vento. “Vent fin, vent du matin, vent qui souffle au bout des sapins, vent qui chante, vent qui danse…” canzone dei campi estivi scout tra i larici delle valli cuneesi di quarant’anni fa…
Un giorno chiacchierando con Virginia mi sono trovato a chiedermi tra me e me se quando si è in situazioni così – seduto a un tavolo di un buon ristorante, servito da una donna giovane bella e simpatica, osservando grandi alberi che si muovono tranquilli – ci si rende conto, ci rendiamo conto, mi rendo conto della fortuna che ho a essere nato dove sono nato, avere avuto la famiglia che ho avuto, avere la possibilità di trascorrere un po’ del mio tempo così… Parlavo di cose tutto sommato futili e pensavo alla guerra infinita in Siria e mi dicevo che là ci sono Raqqa, Aleppo e tutte le città distrutte, c’è gente morta e mutilata che sta lì a prendersi le bombe oppure scappa ma se scappa non sa dove andare perché nessuno li vuole accogliere, invece qui i problemi più gravi delle persone che avevo intorno sembravano riguardare le migliori esche per prendere le trote o il dover scegliere tra lasagne di Ormea al sugo di porri e funghi e il cinghiale con la polenta…
Lo so che sono pensieri scemi, scemi e inutili: in Siria le bombe cadrebbero e i siriani morirebbero anche se io mangiassi bacche e locuste crude, se nel Tanaro ci fossero le meduse urticanti e se Stefania e Virginia fossero due cessi, lo so. Però io ho ringraziato il Cielo che mi ha permesso di essere un italiano al ristorante San Carlo di Ormea e non un siriano in una strada bombardata di Damasco con la famiglia morta o dispersa. Anch’io ho la moglie morta, certo, ma è diverso. Diverso.
Scusate… Torniamo al nostro mondo, alla nostra vita, che per essere più fortunata di altre vite non significa che abbia meno valore di quelle. Concludo: il valore – per me – del Ristorante San Carlo sta nell’unione di tutte le sue componenti: certo la qualità del cibo è essenziale, ma le persone, gli alberi, le chiacchiere con le persone, il vento tra gli alberi lo sono altrettanto. E soprattutto è importante che tutte queste cose siano bene intrecciate insieme. Spesso per capire il significato di una cosa bisogna osservarla con occhio e con spirito olistici. A volte si sente dire “è la somma che fa il totale” ma non è vero: sovente il totale è più della semplice somma delle sue parti, contiene un qualcosa in più che esiste solo mettendo tutte le cose insieme nel modo giusto. Quel ristorante riesco facilmente a vederlo con occhi e spirito olistici. E ci torno sempre volentieri.
Ma sarò riuscito a spiegare chiaramente il mio pensiero sancarlino? Bah… Vedete un po’ voi cosa riuscite a capire…. Buonanotte, e buona digestione