SICILIA VERDE E PIOVOSA

Che non è mica sempre l’isola del sole. A fine ottobre anche in Sicilia piove, piove su un paesaggio di prati, pascoli, boschi e colline che paiono più l’Appennino ligure che la terra dei Ciclopi e del Gattopardo. Vero è che questo 2014 è stato un anno troppo piovoso in tutta Italia, e ancor più vero è che quei pezzi di Sicilia che Donatella e io abbiamo girato freneticamente per 4 giorni (più di 700 km) sono sempre verdi e boscosi, basta guardare qualsiasi foto da satellite.

Con calma: il volo Ryanair Genova -Trapani è comodo e poco costoso, veloce e puntuale. Poi una bella 500 Hertz a noleggio e via verso la nanna serale, in un b&b di Paceco, paesone fra l’aeroporto e Trapani città. Banalotto il paesotto ma la famiglia del b&b La Zagara per nulla: lei professoressa al liceo scientifico, lui non ricordo, ma entrambi innamoratissimi della loro terra, cioè quello che dovremmo essere tutti: senza odiare o disprezzare “gli stranieri”, però amare la nostra terra-patria, e fare di tutto per farne conoscere le bellezze ai “foresti” curiosi e intelligenti. Nel breve tempo di una mezz’ora di benvenuto serale e di una colazione mattutina, ‘sti due signori ci hanno parlato così tanto e così bene del Trapanese che assolutamente dobbiamo tornarci, a rivedere ciò che già vedemmo (Erice, o Segesta, o Mozia…) e a conoscere il molto ancora ignoto. Due persone così sono cittadini benemeriti della loro terra e come loro dovremmo essere tutti, ciascuno nel proprio angolo di mondo. Fra l’altro, il b&b costa poco (almeno rispetto ai criteri liguri) e la colazione è abbondante. Niente male anche il ristorante della cena, Piccolo Borgo, cucina locale.

Seconda tappa il plurisecolare Orto Botanico di Palermo, trionfo di vegetazione e soprattutto dimora di due tra i più giganteschi ficus d’Italia. I ficus magnolioides (o macrophylla), quelli coi rami che fanno scendere radici secondarie sino a terra e diventano grossissimi ed estesi. Ce ne sono anche a Sanremo e a Bordighera, poi in qualche città del sud, a Palermo di bellissimi anche in piazza della Marina; sono “bestie” vegetali enormi e affascinanti…. dai, permettetemi di autocitarmi, riporto ciò che ho scritto per l’articolo che dovrebbe uscire a breve sul numero 3-2014 de La Casana, periodico della Banca Carige:

“A Palermo alcuni di questi imperdibili monumenti sono capolavori della natura, di fronte ai quali qualsiasi Homo sapiens dovrebbe sostare in ammirazione e raccoglimento con umiltà. Poi, dopo aver riflettuto sulla piccolezza – sovente non disgiunta da presunzione – dell’individuo umano di fronte alla natura, è ammesso fotografare i colossi, cercando di catturarne non l’anima, troppo difficile da comprendere per noi che abbiamo solo due gambe e due braccia, ma un’immagine del corpo almeno parziale, ché intero difficilmente entra nell’obbiettivo di una macchina fotografica… un gigante dalla forma complessa e articolata che qualcuno ha definito “albero camminatore”. Il suo “camminare” è dovuto allo sviluppo di radici aeree colonnari che scendono dai rami e raggiungono il terreno dove si tramutano in tronchi supplementari, pilastri che collaborano col tronco principale a sostenere il peso della grande chioma dell’albero e funzionano anche come radici per assorbire acqua e nutrimento dal terreno. Le radici colonnari espandono il territorio vitale dell’albero mentre il tronco e le radici principali inglobano tutto ciò che trovano intorno, spostano e demoliscono muri”

Palermo: bella città del sud, elegante, popolare, qua e là bisognosa di restauri architettonici. Per me era la terza visita in città, ma anche questa come le precedenti (e antiche, 1981 e 1987) molto breve, troppo breve ma più di così non si poteva fare. Mi era piaciuta trent’anni fa e idem stavolta ma così di fretta, giusto per rifarsene un’idea. Idea di una “sorella” di Napoli ma mooooooolto meno rumorosa e con un traffico molto più “normale”. Magnifica l’affrescatissima chiesa della Martorana, bella la cattedrale (temporalone lunghissimo quando eravamo lì dentro senza poter uscire…), piacevolissima la trattoria Ferro di Cavallo dietro via Roma lato opposto alla Vucciria. Più altre cosette sparse. Qualche cane randagio nelle piazze, anche quella del municipio, sotto gli occhi indifferenti dei vigili. Non macilenti e affamati, solo randagi, ma a “noi del nord” fa effetto.

Poi via verso l’entroterra: Castelbuono ha un grosso castello dei Ventimiglia, feudatari importanti che mica per caso arrivarono in Sicilia dall’estremo ponente ligure, alcune graziose vie del passeggio fra case e palazzotti in pietra bruna, un bel polittico cinquecentesco nella chiesa Matrice Vecchia, un b&b-ristorante (Donjon) complessivamente piacevole ed economico, e la Manna delle Madonie, presidio Slow Food, tema del mio secondo articolo per La Casana. Niente visita ai boschi di frassino perché pioveva assai, la manna l’abbiamo imparata seduti al bar conversando con il giovane e serio produttore mannarolo, un 35enne che mantiene viva la tradizione secolare del suo paese. Rende anche benino, la manna delle Madonie, e meno male per lui, anche se per vivere ha bisogno di fare anche un altro lavoro, nella fattispecie la guida naturalistica.
Questo Mario Cicero è un altro dei tanti che in giro per l’Italia si battono contro l’abbruttimento culturale e ambientale della nazione. Mantenendo vivi e funzionali i boschi, mettendo in commercio un prodotto sano e antico, conservando conoscenze che rischiano di sparire con la morte degli anziani, creando posti di lavoro per giovani che hanno voglia di sporcarsi le mani senza accasciarsi davanti a una scrivania con computer in uffici con la luce artificiale. Lui diceva “purtroppo parecchi ragazzi non apprezzano la bellezza del lavoro artigianale e non si rendono conto del reddito che questi lavori possono portare”. Però mi pare che per fortuna altri ragazzi apprezzino e se ne rendano conto, lui è stato uno di questi, e grazie alla Casana ormai ne ho conosciuti diversi in giro per l’Italia, e ne conosco diversi in Liguria, quindi non sarei troppo pessimista, in generale.

Finito di parlare di manna siamo saliti a Geraci Siculo, chilometri di curve fra alberi e pascoli, proprio come nell’Appennino di casa nostra, sembrava di salire da Badalucco a Verdeggia, per fare un paragone, o da Bargagli a Rondanina, cose così… A Geraci altro castello dei Ventimiglia, però a rudere, e una trattoria-museo naturalistico deliziosa, il Rifugio dell’Aquila. Nella boscaglia autunnale, unici clienti (giovedì di fine ottobre con la pioggia, ancora grazie che c’eravamo noi…), un giovane gestore altro esempio di italiano di belle speranze che cerca di fare bene e con passione il suo lavoro onorando il territorio in cui vive… Anche di lui ho scritto su Trip Advisor.

Il giorno dopo, tre-ore-andata-più-tre-ore-ritorno da Castelbuono a Bronte sotto l’Etna a parlare di pistacchio locale (Presidio Slow Food pure lui) con una famiglia di pistacchiari. Professionalmente interessante anche qui, anche se la cosa è più “industriale” della manna del giorno prima, Bronte – che abbiamo appena sbirciato – ci è parso molto meno interessante di Castelbuono e il ristorante del pranzo (Parco dell’Etna) altrettanto appetitoso di quelli precedenti anche se un po’ più caro. Per la seconda volta mi cito, riportando ciò che ho scritto su Trip Advisor “Su consiglio di un produttore di pistacchio di Bronte “Presidio Slow Food” con mia moglie abbiamo pranzato qui durante un viaggio di lavoro. Lei ha preso un piatto misto di carne e io una braciola di suino nero dei Nebrodi, presidio Slow Food anch’esso, entrambi cotti su pietra lavica. Affermo con assoluta convinzione che è stata la migliore braciola di maiale che abbia mai mangiato. Merito della bestia che l’ha messa a disposizione suo malgrado dopo essersi goduta la vita pascolando brada nei bei boschi nebrodensi (questa è la vita che dovrebbero fare tutti i maiali, altro che allevamenti intensivi), ma merito certamente anche del cuoco che l’ha cucinata e cotta. Anche gli abbondanti primi di pasta con sugo al pistacchio e la carne mista scelta da mia moglie erano della medesima qualità. Conto, un briciolo più caro di quanto ci aspettassimo ma la qualità ha il suo giusto prezzo, no?”
Il gestore del ristorante mi ha riposto ringraziandomi e invitandoci a tornare; non che Bronte sia a due passi da Genova e da Sanremo ma prima o poi…

Ecco, i suini neri dei Nebrodi… ne abbiamo incontrato diverse famigliuole lungo la boscosa e tortuosa strada che salescende da Castelbuono a Bronte; bellissimi, neri e marroni, qualche adulto e un po’ di piccoli… certo, lo so che i vegetariani-vegani tra Voi Lettori stanno inorridendo ma io resto fortemente convinto che le carote e le insalate, esattamente come i maiali e le mucche, non sono per niente contente di essere uccise per venire mangiate. Certo non scappano, non urlano, non piangono, non si ribellano, ma ciò basta a dire che non soffrono? Secondo me no, non basta.
Eppure vegetariani e vegani – a parte quella bizzarra ma simpatica minoranza che si definisce fruttariana, ammesso che ce ne siano davvero di totalmente fruttariani – mangiano carote e lattughe (cfr. kill the salad, canzone anarko-punk che ho scoperto pochi mesi fa grazie ai gatti della ex-zia Meletta) quindi pure loro uccidono esseri viventi, checché ne pensino e se ne vantino.

Però secondo me fa differenza mangiare braciole di maiali che hanno vissuto liberi nei boschi rispetto a mangiare maiali che sono stati schiavizzati in stile Guantanamo negli allevamenti intensivi. La stessa differenza che passa tra una lattuga coltivata all’aria aperta con concimi naturali e una lattuga di serra irrorata di prodotti chimici. Differenza non per il gusto e la salute di noi umani che mangiamo i maiali e/o le lattughe ma proprio per la qualità della vita del maiale e della lattuga prima del loro incontro con le mani assassine del macellaio e del contadino.

Ultimo giorno con tappa a Monreale, Arte con la A majuscola ma questo lo sanno tutti. Poi su nel cielo verso Genova, auto verso Sanremo, casa…

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