“I laghi, non vado mai”. Così, anacoluticamente, cantavano una trentina d’anni fa Cochi e Renato nella loro “A me mi piace il mare”. (Ah, la grammatica italiana!…)
Anche a me piace il mare e ai laghi ci vado poco, ma me ne rammarico, ché il paesaggio lacustre delle colline prealpine è il più rasserenante, riposante, anti-logoriodellavitamoderna che a mio parere esista – almeno in Italia. Secondo me la felicità, ammesso che “felicità” sia un concetto realmente conoscibile dagli esseri umani, la si può trovare più facilmente accanto a un lago fra le colline che in qualunque altrove. Credo ci sia una ragione biologica-culturale per questo: quando vivevamo in villaggi di agricoltori-cacciatori, tanto neolitici quanto altomedievali, le colline ci offrivano rifugio e protezione dalle fiere e dai nemici assai meglio sia della pianura, più semplice da coltivare ma poco difendibile, sia della montagna, più facile da difendere ma con condizioni agro-climatiche ostili, sia del mare, pericoloso da percorrere e impossibile da coltivare e da bere. I laghi, invece, si possono bere (almeno parecchi secoli fa si poteva) e usare per irrigare i campi.
Varese, provincia dei nove laghi. Una piccola Finlandia lombarda di specchi d’acqua a misura d’uomo circondati da colline verdissime di boschi e macchiettate dai colori di eleganti ville ottocentesche e liberty che dimostrano che non furono solo i contadini dei preistorici villaggi di palafitte a preferire queste terre morbide come buen retiro. Sono laghi formati dai detriti e dalle morene dei ghiacciai dell’ultima glaciazione, per lo più privi di veri immissari e alimentati dalle piogge, fratellini minori del vicinissimo Lago Maggiore e del serpeggiante Lago di Lugano; sono onusti di fascino ambientale e culturale tanto quanto i due grandi, ma assai meno noti di loro presso il grosso pubblico.
Venendo da sud il primo che si incontra è il lago di Comabbio: fra i folti canneti delle sue rive una famiglia di cigni procede ordinatamente, un genitore cammina davanti, i piccoli lo seguono e l’altro genitore chiude la fila in retroguardia. Solo dopo essere entrati in acqua i “brutti anatroccoli” possono distrarsi un po’ e la fila diventa un sano fanciullesco caos giocoso. In estate l’aria e la campagna profumano di fiori e di verde ma mi si dice che, stante la scarsità dei fondali (4 metri di profondità massima) il lago in inverno gela e diventa un magnifico patinoire di 3 km quadrati. Provo a immaginarlo col cielo grigio e il fondo duro e bianco macchiato di puntini scuri che scivolano sulle lame come in quei quadri dei paesaggisti fiamminghi del Rinascimento, ce n’ho uno (una copia, una riproduzione) appeso a un muro di casa mia… anche i cigni pattinano, in inverno?
Monate è un laghetto ancor più piccolo ma più profondo, alimentato da sorgenti sotterranee; nelle sue acque pulitissime non si pattina ma prendere il sole sulle sue spiagge, andare in barca (non a motore!) e fare il bagno sotto il solleone estivo dev’essere assai piacevole.
Quello che sulle carte è segnato come Lago di Biandronno è luogo per menti acute, aduse a cogliere l’essenza profonda delle cose al di là delle mere apparenze: cioè uno arriva lì e dice “e ben?”. Che il lago non c’è. C’è la strada che lo peripla, c’è la Riserva Naturale che lo tutela, ma il lago no. Una celebre guida turistica recita “ridotto ad acquitrino da una parziale bonifica ottocentesca”; in parole povere significa che si presenta come una piccola piana gonfia di folte erbe alte e delimitata da case rurali e campi coltivati. Avrei voluto infilarmi fra le erbe a piedi in cerca di sguazzi e fanghiglie che facessero supporre l’acqua sottostante ma non l’ho fatto; temevo di infangarmi i pantaloni o qualche subdola sabbia mobile…
Il lago di Varese è il fratello maggiore dei quattro bacini morenici a sud del capoluogo: 15 kmq, più del doppio dell’insieme degli altri tre. Varese è la città eponima ma si cela alla vista fra basse ondulazioni; il lago si perde all’orizzonte nella foschia del meriggio tardoprimaverile e simula dimensioni molto maggiori delle reali. Rari voli di anatrelle nereggiano nel controluce dei fitti canneti rivieraschi, che sono rimasti intatti durante gli sfaceli edilizi del secondo Novecento grazie all’inquinamento industriale delle acque che ha tenuto lontano i costruttori di villette e di nani da giardino. Ora l’inquinamento sta diminuendo e la sensibilità ambientale è cresciuta, perciò forse la sopravvivenza dei canneti e delle anatre è garantita. Quello delle rive è un paesaggio molto naturale che permette al fotografo amatoriale alcuni buoni scatti “d’atmosfera” che non lasciano supporre il consueto ambaradam di palazzotti moderni, antichi edifici patrizi, stazioni di servizio e tangenziali di vario rumore che animano l’operosa giornata di Gavirate, principale località costiera. Dove meriterebbe una sosta (su appuntamento) la Casa-museo della Pipa, custode della memoria di una tradizione di alto artigianato varesino che data dalla fine del XIX secolo.
È per nulla lacuale ma merita un affettuoso cenno anche l’alpestre borgo di Arcumeggia, “paese dipinto” arroccato a 570 metri di quota nei boschi fra la Valcuvia e il Lago Maggiore: case in pietra da montanari, stradine selciate a saliscendi e una quantità di affreschi sui muri degli edifici, dipinti da celebri-e-non artisti del secondo Novecento. Chi decide di pranzare nell’elegantemente rustica osteria al centro del paese si vedrà servire non la solita acqua minerale in bottiglie di plastica da supermercato ma vera acqua di sorgente: l’oste esce dall’osteria con una caraffa di vetro in mano, va alla vicina fonte, la riempie di acqua fresca e la porta al cliente, che si disseta stupito e soddisfatto.