Àmami, àmami, strìngimi, sgònfiami
e àmami, sdèntami, stràcciami, àpplicami
e dopo strìngimi, dammi l’ebbrezza dei tèndini
prèndimi, con le tue labbra accarèzzami.

Rino, non riconosco gli anèddoti
sfiòndami, spòstami tutte le efèlidi
àprimi, pìcchiami solo negli àngoli,
brìvido, no non distinguo più i dàtteri.

Silvano, e non valèvole cìccioli
Silvano, mi hai lasciato sporcàndomi
E la gira la gira la ruota la gira
e la storia del nostro impossibile amore continua
anche senza di te

prèndimi, con le tue labbra fracàssami,
Rino, sfòdera scuse plausìbili,
gìrati, scaccia il bisogno del pàssero,
lùrido, sòffiati il naso col pèttine
Èverest, sei la mia vetta incredìbile

……..

Nella seconda metà del Novecento a Milano sono vissuti alcuni artisti che hanno scritto canzoni che erano poesie, non semplici canzonette, geniali nel raccontare personaggi di una umanità “minore” che non aveva nessun titolo per passare alla storia ma che ha lasciato memoria di sé grazie all’intelligenza e alla sensibilità di questi signori che hanno voluto prendersi a cuore le loro storie, i loro destini, raccontandoli attraverso la loro arte con note, rime e accordi musicali.

Penso soprattutto a Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Per Gaber penso ad esempio al Cerutti Gino, che lo chiamavan Drago gli amici al bar del Giambellino, o il Riccardo che da solo gioca al biliardo, non è di grande compagnia ma è il più simpatico che ci sia.

Jannacci ha cantato le sorti di quello che voleva venire anche lui ma “no, tu no!” emarginato da tutti e da tutto, anche dal suo funerale, e poi di quello che faceva il palo nella banda dell’Ortiga ma l’era sguercio, non ci vedeva quasi più, e anche del barbone che purtava i scarp del tennis e parlava de per lü; e poi del ragazzo padre peccatore per questa società, e del tossico che sta male e ha bisogno di lavorare ma avrebbe dovuto dirlo prima, e l’operaio quasi disoccupato che rincorre a stento una Sisal e ha una voglia di pasta col pane che riempia.

E poi c’è Silvano. La sua è un nonsense di canzone, un quasi nonsense (dovrebbe essere il racconto della fine di un amore omosessuale), e su YouTube c’è un delizioso videoclip della canzone con Jannacci in smoking e scarpe da tennis che va sui pattini a rotelle nelle strade di Milano (in Via Dante per la precisione), tra autobus arancioni, automobili Fiat 126 e 128, gente sui marciapiedi che lo guarda incuriosita (si legga: https://www.ondamusicale.it/oggi-in-primo-piano/71203-enzo-jannacci-e-silvano-il-genio-irriverente-di-un-seguace-di-ippocrate/), ma il gioiello di questa canzone surreale è il testo, una meraviglia di giochi di parole e di accenti.

Silvano, scritta nel 1978 a sei mani insieme a Cochi e Renato, consta per lo più di versi endecasillabi sdruccioli, versi di dodici sillabe con accenti sulla prima, quarta, settima, decima sillaba. Ma il colpo di genio è che non solo le rime ma anche la maggior parte delle parole all’interno dei versi sono sdrucciole. E c’è anche almeno una bisdrucciola (àpplicami).

Costruire versi ben strutturati metricamente usando tante parole sdrucciole – che sono poche nel vocabolario italiano – implica il dover rinunciare a un vero senso compiuto delle frasi. E Jannacci con Cochi e Renato ci rinunciano volentieri, creando ‘sta successione di frasi quasi senza senso che avrebbe fatto – credo – la gioia di Lewis Carroll ed Edward Lear.

Quindi, a prescindere dalla triste conclusione della storia di sesso e amore tra Rino e Silvano (che pur essendo impossibile continua “anche senza di te”), applaudo il medico e cardiologo Jannacci anche per la sua abilità nel giocare con la lingua italiana, abilità che apprezzo sempre moltissimo in chi ce l’ha.

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