Domenica 5 novembre, in un servizio del telegiornale dedicato alle terre toscane allagate dalla tempesta Ciaran, un giornalista parlava da un quartiere allagato del comune di Montemurlo, provincia di Prato, e disse che “questa zona i vecchi la chiamavano il Pantano”. Perché quando un tempo, signora mia, lì era tutta campagna, nei mesi piovosi si formava un lago.

Digitando su Maps “Via del Pantano, Montemurlo” comparirà una rete di strade con edifici industriali e residenziali nella pianura tra Prato e Pistoia. Dove c’erano terre soggette a naturali periodici allagamenti, in tempi moderni la frenesia edilizia degli onesti cittadini e dei volenterosi amministratori pubblici ha dato vita a un quartiere urbano infischiandosene dei ritmi della natura.

A Genova i venditori di frutta e verdura si chiamano “besagnini”. Molto spesso oggi o besagnin è magrebino o bengalese ma il concetto è il medesimo di quando ero ragazzino e il massimo dell’esotismo tra i fruttivendoli era qualche meridionale.

Il nome Besagnin deriva dal torrente Bisagno; fino a metà Ottocento l’alveo del Bisagno era esterno all’area urbana ed era coltivato a orti; i contadini portavano in città i loro prodotti e i cittadini li chiamavano “bisagnini” proprio perché le loro verdure erano cresciute sulla riva del Bisagno.

A metà Ottocento Genova si espanse nei nuovi quartieri “sabaudi” di strade larghe e rettilinee in stile torinese. Si digiti su Maps “Ponte Sant’Agata, Genova”: apparirà un moncherino di ponte antico nel letto del Bisagno accanto al moderno Ponte Castelfidardo, poco a monte della Stazione Brignole. A sinistra del ponte (a ponente) ci sono Via Canevari e tutto il centro della città. A destra (levante) ci sono Piazza Manzoni, il “sabaudo” Corso Sardegna e il quartiere di San Fruttuoso.

Quel rimasuglio di ponte antico è ciò che resta dell’importante ponte di Sant’Agata, datato nella sua versione primigenia VII-VIII secolo: scavalcava il torrente Bisagno e univa Genova alla via per la Riviera di Levante e poi verso la Toscana e Roma (era l’antenata delle attuali SS1 Aurelia e autostrada A12). Oggi di quel ponte rimangono due arcate ma se si allunga mentalmente fino a completare l’attraversamento del torrente si capisce che cinque arcate sarebbero sufficienti a collegare Via Canevari con Piazza Manzoni. Quand’ero giovinetto era proprio così e se non ricordo male era ancora percorribile a piedi dall’una all’altra sponda. Poi le varie alluvioni dal 1970 in poi lo hanno reso rudere.

Ma il ponte di Sant’Agata originario era lungo 360 metri e aveva 28 arcate… Ma se cinquant’anni fa ne bastavano cinque per superare il torrente, dove stavano le altre ventitré? Il ponte è di Sant’Agata perché a levante terminava presso la chiesa di Sant’Agata (cercatela su Maps); la testa della sua 28esima arcata è nascosta negli anfratti di via Giuseppe De Paoli a pochi metri dalla chiesa. Vedete quanto è lontana oggi la chiesa dal torrente e immaginate come era tutto diverso prima del boom edilizio otto-novecentesco, quando il Bisagno aveva uno spazio così largo per scorrere. Ma a noi “sapiens” (Homo stultus, non Homo sapiens) ci piace costruire case e cose dove scorrono i fiumi, ci piace… Certo, le nostre antiche civiltà sono tutte nate intorno ai fiumi, ma intorno, non dentro…

I fiumi hanno straripato sempre durante i millenni. Adesso succede troppo frequentemente perché da un paio di secoli ci diamo molto da fare per aumentare a dismisura l’energia cinetica dell’atmosfera ma le alluvioni ci sono sempre state. Però il Bisagno che straripava trecento anni fa aveva 360 metri di alveo e 28 arcate di ponte per allargarsi prima di salire a inondare le strade, alla peggio annegava qualche cavolo e qualche carota, adesso ha un quarto dello spazio a disposizione.

E a Montemurlo quando veniva giù il diluvio c’era il Pantano che si prendeva tutta l’acqua e pian piano la smaltiva, adesso c’è la palestra, la confraternita, il liceo artistico, il Volkswagen service…

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