Sono le 15.20 di lunedì 18. Temperatura nell’automobile 36°, umidità 30%. Pochissima, per fortuna. Lieve brezza. Cielo velato; macaja, si direbbe a Zena. Qui, non so. Qui è la campagna granoturcosa attorno a Pavia, lungo la SS 35, subito a sud del Po. Sono appena uscito da una trattoria campagnola dove per sole 20.000 lire ho mangiato risotto con le salsicce, piatto misto di roast-beef, arrosto simplex, faraona e pollo, insalata e patatine, formaggio, frutta, una bottiglia di Barbera dell’Oltrepò pavese, acqua, caffè e amaro “fatto da noi”. Pranzo abboffante e riscaldante ideale per un giorno di fine luglio con 36°, ma buono, e poi quasi gratis, secondo i parametri genovesi. Di ritorno dall’incontro con l’editore di Milano, con cui si è parlato degli ultimi dettagli della guida Riviera di Levante “Golfo del Tigullio”, e si sono gettate le basi per il lavoro futuro: tanta roba che potrei passare l’anno prossimo a lavorare solo per lui. Mi piacerebbe anche, potessi. Gli è che a me le cose che faccio, dopo un po’ mi viene voglia di cambiarle; anche se cerco di non renderlo troppo pubblico, specie in casa, che mi prenderebbero per tutto scemo, in realtà di stare all’università, dopo 7 anni, sono un po’ stufo. Discorso forse infantile ed insulso, ma è così. Soprattutto discorso incoerente: se veramente volessi fare il nomade, dovrei farlo del tutto. Prendere0 e andare. Invece vorrei la moglie piena e la botte ubriaca: Genova, perché è la più bella città del mondo (affermazione provinciale e gretta), il mondo perché è vario e bello, un lavoro vario, libero, senza orari e limitazioni (e più o meno ce l’ho), ricco (il giusto, non troppo), diverso e non monotono. Mah. Comunque voglio cercare di riuscire a conciliare la ricerca all’università con le nuove guide da farsi sulla Riviera di Ponente e le valli dell’entroterra. Proverò. Non è ancora il National Geographic, ma accontentiamoci.
Fa caldo, anche sdraiato di traverso con le porte aperte e i piedi fuori dal finestrino. Sta venendo fuori un foglio pieno di scarabocchi. Come farai a leggerli?
Ma perché ti scrivo? Beh, per digerire, in primis. Che detto così suona quasi offensivo. Poi per chiacchierare un po’ con una fanciulla con la testa “piena di segatura”, come dice lei, che è segatura di legno pregiato, però. Poi perché mi piace essere “qui e là” come è successo in questi giorni giracchiando variamente per l’Italia: sabato sera a Rocca Grimalda, domenica ad Ormea di giorno e a Carpeneto la sera, oggi a Milano, ed anche parlare con chi è qui e là mi rallegra, tipo la telefonata di mezz’ora fa con mia sorella che è a Palermo; anche se in contumacia, un pò mi sento a Palermo anch’io. Sono piccolissimi piaceri della vita, niente di veramente importante, lo so, a ben vedere è solo un gioco, anzi, un giuoco, come piuolo, mariuolo, fagiuolo, picciuolo, poggiuolo, col trittongo -iuo, ormai desueto, mi fa pensare ad un vecchio libro di Pinocchio forse di mia nonna, con queste parole ottocentesche e la carta ingiallita. Pinocchio era un mariuolo, no? Divago. Si diceva dei piccolissimi piaceri, piccoli ma che mi rallegrano, e quando sono contento mi viene voglia di comunicarlo al mondo in qualche modo. Oggi, come spesso, il Fato ha voluto che fossi tu il canale attraverso cui voglio comunicare la mia semplice e un po’ infantile gioia di vivere all’universo, a quell’universo che mi offre l’afa estiva, i pioppi e il granoturco di questa campagna, il barbera della trattoria (buono, il barbera della trattoria!), l’assegno per le diapositive vendute, cose così, ecco.
Basta davvero, ora. Troppo faticoso scrivere. Si torna a Genova. Ciau.

(Scritto il 18 luglio 1994)

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