Il formicaio è nascosto nell’erba folta del vaso sistemato all’angolo del balcone. E come ogni anno, all’inizio della primavera la comunità si risveglia e ricomincia il traffico lungo l’itinerario che collega il grosso vaso all’appartamento del piano di sopra. Salgono lungo lo spigolo fra i due muri che delimitano il balcone, deviano a mezza altezza e raggiungono con un percorso inclinato la parete esterna del palazzo; da lì ci vuol niente ad entrare nel terrazzino del quinto piano. Molte salgono, tante scendono. Scendono portando giù briciole di pane, croste di formaggio, frammenti di una realtà alimentare che suppongo simile a quella di casa mia. Forse migliore, giacché sono anni che le formiche vanno a rifornirsi di sopra pur avendo un soggiorno in cui si consumano tre più tre pasti al giorno a pochi metri dal formicaio. O forse è un sottinteso accordo di buon vicinato: noi famiglia le lasciamo vivere nel vaso sul nostro balcone e loro formiche non entrano in casa a disturbare. Che poi disturbare, via… sai che disturbo sarebbe, qualche formica in giro per casa… A volte alcune salgono al quinto piano cariche di cibo, forse nei giorni in cui la signora ha lasciato bruciare l’arrosto o ha scotto la pasta, e loro, gentilmente, portano su qualcosa dalle loro dispense affinché il marito non abbia a rimproverare la moglie della negligenza culinaria. O forse perché su hanno un deposito, una dependance, un pied-à-terre, un rifugio antiatomico, qualcosa insomma dove è opportuno avere del cibo a portata di mano in ogni momento. Non ho mai chiesto ai signori del quinto piano che rapporti intrattengano con le formiche; in realtà sospetto che non si siano mai accorti della loro presenza, ed evito di parlargliene perché non vorrei che decidessero di scacciarle. Sono coinquilini discreti, puliti e silenziosi; mi dispiacerebbe se qualcuno facesse loro del male.

(Scritto nel marzo 1994)

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